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giovedì 15 settembre 2016

Il mondo com'è (276)

astolfo

Ecumenismo – Era tema già del Quattrocento – prima che la Riforma introducesse ulteriori divisioni, dentro la stessa cristianità: Niccolò Cusano dedicò al tema un trattato, “La pace della fede”, tre anni dopo il giubileo del 1450, che avrebbe dovuto – e non ci riuscì – sancire la riunificazione delle chiese d’Occidente e d’Oriente, a seguito dei concili di Costanza e Ferrara-Firenze. Da teologo, Cusano vi sostiene “l’unità delle religioni di tutti i popoli diversi, nel presupposto di una fede comune al di là della diversità dei riti, delle cerimonie e della provenienza geografica” – nella sintesi di Graziella Federici Vescovini, che ne ha curato la traduzione e la riedizione.

Faziosità – Sarà il segno della politica italiana? Una forma di settarismo e di fanatismo. Nelle logiche di partito e di corrente dei vecchi partiti, sotto il segno oggi della trasparenza nel movimento 5 Stelle. Che dell’eguaglianza e del pluralismo si fa bandiera, mentre persegue ogni minimo scostamento -  da una “linea” peraltro indefinita, che si materializza nel culto del Capo, al coperto di finte consultazioni online, “democratiche” o “popolari”. La tradizione è per la faziosità estrema, da Dante a Machiavelli, al Tasso, al Foscolo, di proscrizioni e scomuniche, vendette anche. La storia d’Italia è in questo unita da molti secoli. Dei Comuni in lite tra di loro e al loro interno, delle signorie e tra le signorie, degli stessi movimenti ribellistici – compresi quelli rivoluzionari, giacobini o carbonari, fino al terrorismo brigatista degli anni 1970-1980: sempre settari. È specialmente la storia della Repubblica, segnata dapprima dalla guerra fredda, poi dal giustizialismo, una sorta di alluvione interminabile alimentato dall’invidia e dall’odio.
“È opinione comune”, scrive sulla “New York Review of Books” l’italianista Tim Parks, “che una delle più peculiari caratteristiche della vita pubblica italiana è la faziosità, in tutte le sue varie manifestazioni: regionalismo, familismo, corporativismo, campanilismo, o semplicemente gruppi di amici che restano in contatto dall’infanzia alla vecchiaia, spesso sposandosi, separandosi e risposandosi tra di loro…” Ma con effetti di peso: “Si può dire che per molti italiani il valore più importante è l’appartenenza, essere il membro rispettato di un gruppo che essi stessi rispettano. Solo che, disgraziatamente, questo gruppo raramente corrisponde alla comunità in generale, e spesso è anzi in feroce conflitto con essa, o con altri gruppi similari”.
Più spesso ancora il crudo interesse fa aggio sul sentimento dell’appartenenza.

L’uso del dialetto, privilegiato, il filologo Parks porta a riprova della faziosità imprescindibile: si parla di preferenza in dialetto, si fa la tara di chi non lo parla. Parks ricorda il fastidio di Manzoni, che pure volle riscrivere il suo romanzo in lingua, e lo ebbe anzi imposto a scuola di italiano, quando doveva interrompere la conversazione con gli amici milanesi o lombardi perché qualcuno era arrivato da fuori, da Venezia, Firenze o Napoli, e si doveva passare al toscano.
Una conferma si può dire lo stesso divieto di “insulti regionali” che i codici sportivi ora sanzionano. Divieto “abbastanza assurdo”, dice Parks, ma esso stesso segno di una coscienza divisa.

Impero – Quello romano fu riluttante – così come quello americano oggi. Non s’impose e non si allargò per progetto ma in risposta alle sfide. Dei Galli a più riprese, i Celti, i Sanniti, i Latini con gli Etruschi, Pirro, Gerone, la Macedonia, Cartagine, i Celtiberi, i Germani in lite, i Parti a più riprese, la Britannia, la Tracia, la Dacia. L’unica azione offensiva fu quella di Cesare, che sterminò centinaia di migliaia di Germani inermi e pacifici, e attaccò senza ragione i Celti. Anche l’impero cristiano fu difensivo, il Sacro Romano Impero.
È con gli Stati-Nazione che il dominio del mondo si disegna e s’impone. Da Colombo in poi, come disegno di civiltà. Nelle Americhe, in Africa, in Asia, India compresa, e poi la Cina. Con la Francia post-rivoluzionaria e napoleonica nel primissimo Ottocento, e  con la Germania nel primo Novecento, fin dentro l’Europa, fino ad allora governata dal trattato di Westfalia, 1648, dell’equilibrio delle potenze.
L’impero riluttante si faceva però con i saccheggi e le depredazioni, nel fervore della battaglia e a freddo. Allo stesso modo poi come le guerre coloniali.
L’impero moderno, per converso, benché aggressivo è stato “contrattualistico”. Da legalizzare in qualche modo, in ogni sua forma. A partire dalla Raya, la linea di demarcazione con cui papa Alessandro VI Borgia divise nel 1493, su loro richiesta, fra i regni di Spagna e del Portogallo il commercio atlantico che si apriva, e quindi la colonizzazione dell’America – allora la chiesa di Roma aveva giurisdizione universale.

Islam – È reazionario: espelle cultura e storia. Lo è diventato, non lo era fino a recente. Non sono molti anni che numerose capitali islamiche erano centri di arte, soprattutto di poesia e musica, e di pensiero innovativo, dal Senegal allo stesso Afghanistan, e all’islam indiano. Il Cairo, Teheran, Damasco, Beirut, perfino il Pakistan oggi ferocissimo, erano focolari di progetti sociali e politici innovativi e aperti sul mondo.    
La reazione data dall’avvento del khomeinismo. Che, partito dal progetto di fare dell’islam un centro di potere moderno, presto lo confinò in un’ortodossia che trova ancora difficile definire e delimitare – l’ortodossia si vuole definita, “legale”. Il khomeinismo ha presto provocato la reazione del più vasto mondo sunnita, che si è voluto concorrente sullo stesso terreno della “purezza” o radicalizzazione della religione. 

Italia - Si lamenta, specie a destra, che l’Italia non ha avuto una rivoluzione: non Lutero, non la ghigliottina. Ma notava Stendhal, quando arrivò con Napoleone, che “non c’erano in Italia abusi odiosi, la nobiltà non vi godeva privilegi eccessivi, non c’erano contrasti clamorosi tra la realtà e l’opinione pubblica”. Due secoli di storiografia progressista hanno cancellato questa realtà.
Solo un paese arretrato come la Francia, sempre secondo Stendhal, poteva dare tante teste alla ghigliottina e a Napoleone tanta carne da macello. Questa è un’opinione e non un fatto, però di buona logica. È “Napoleone”, nota Stendhal”, che “ha reso il basso popolo proprietario, gli ha insegnato l’orgoglio e gli ha tolto il vizio di rubare”, in Francia.

Lo stesso per la Riforma, si può arguire: l’Italia non aveva bisogno, per pensare, che un monaco sfidasse Dio, rubandogli la grazia.

Napoleone - Impose al duca di Parma, presa Piacenza, il regalo di venti quadri, primo caso nella storia, per il costituendo museo che la rivoluzione aveva decretato a Parigi, il Louvre. Il duca offrì due milioni per tenersi almeno il San Girolamo del Correggio - era già il ducato del formaggio, se non ancora del prosciutto e del pomodoro in scatola. Bonaparte, secondo Stendhal, fece rispondere: “Dei due milioni presto non resterebbe niente, mentre un tale capolavoro”, ora attrazione minore del Louvre, “ornerà Parigi nei secoli, e genererà altri capolavori”. Spiegando d’un colpo la sua diversità dagli altri generali francesi, benché Stendhal ne ribadisca nell’occasione “il carattere italiano”.

Roma – Due terzi – tre quarti? – dello scaffale che la libreria dedica all’antica Roma è di studiosi anglosassoni, il resto è di francesi, tedeschi, olandesi, finlandesi. Poca roba è italiana. È anglosassone anche il filone dei best-seller da banco, di Harris et al.. È americano quello dei film, i peplum o kolossal. Il rifiuto di Roma fa parte del rifiuto italiano dell’Italia. 

astolfo@antiit.eu 

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