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martedì 25 ottobre 2016

Secondi pensieri - 282

zeulig

Cartesio – Il surrogato della Riforma in Francia, lo vuole Malaparte nel diario parigino dopo la guerra, “Journal d’un étranger à Paris”. Che ha lo stesso “profondamente trasformato il cattolicesimo francese”. In ogni caso, il cartesianesimo “ha eliminato ogni elemento magico nela vita francese”. Lo stesso si può dire di Pascal, da questo punto di vista, in campo avverso. Di una Riforma del genere calvinista, sradicante – mentre quella luterana è radicata, “tedesca”, tribale, della divinità radicate nel singolo tedescofono.
In un senso è sicuramente vero: finisce nel Seicento, stagione peraltro gloriosa, di sentimenti (Racine, Corneille) e di trasgressioni (Molière), una storia letteraria vivace oltre quanto nessun’altra. Dalla ricchissima matière de Bretagne, con le connesse chansons de geste, ai trovatori, i fabliaux, “Il romanzo della rosa”, Villon, Rabelais, Margherita di Navarra, Marot, Montaigne… Che poi si inaridisce nella “filosofia”, delle stesse pulsioni e gli appetiti originari - fame, lussuria, dominio, renitenza.

Entusiasmo – Ritorna la “Lettera sul’entusiasmo”, inteso come fanatismo religioso, di Shaftesbury, 1707 – tre edizioni in contemporanea, più due non remote, molto ben curate, una da Garin e una da Mario Luzi. Un testo che reagiva alla rivolta dei Camisard in Francia, a partire dal 1702, gli ugonotti delle Cévennes che protestavano contro l’editto di Fontainebleau, con cui Luigi XIV cancellava le ultime guarentigie dell’editto di Nantes. Ma non è tanto di religione quando di politica che nella “Lettera” si parla: il conte di Shaftesbury, Anthony Ashley-Cooper, contesta il fanatismo alla luce del principio della tolleranza del suo precettore Locke. Più a fondo, propone come arma l’ironia, contro il fanatismo religioso e politico della stagione hobbesiana della guerra civile, di tutti contro tutti. Contro l’impegno, cioè, o la coerenza, dietro il paravento della bonarietà: “Le opinioni più ridicole, le mode più assurde, possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve”. Col sussidio di bon mots: “La gravità è fatta della stessa essenza dell’impostura”. “Salvare anime è diventata la passione eroica degli spiriti esaltati”, etc.
Ronald A. Knox, lo scrittore di gialli e cappellano cattolico di Oxford che è stato uno studioso dell’“entusiasmo” secentesco, dai giansenisti ai camisard, circoscrive l’analisi al solo fatto religioso. E così facendo trova confini non definiti con l’eresia – la scoperta o proclamazione dell’eresia. E con la santità – la professione di santità. Il francescanesimo, per esempio, che oggi si impone.
Nella stagione contemporanea, dell’impegno rovesciato, o dello scetticismo generale, l’ironia funziona così anch’essa al rovescio: dando sostanza ai “veri credenti”. Contro l’estremismo resta solo la legge.

Grazia (diritto di) – È stata rifiutata a Sofri perché non l’ha richiesta. Cioè non ha ammesso la colpa. Dopo essersi sottoposto a tutti i gradi di giudizio, pur potendo non farlo. Ed  è stato condannato in un processo per molti aspetti, se non tutti, ricusabili. 
Kant avrebbe obiettato, “Metafisica dei costumi” – “Dottrina del diritto”, intr. al § 50 e segg. Kant limita il diritto sovrano di grazia a delitti contro il sovrano, di lesa majestatis. Ma, pur definendolo il più delicato il più rischioso e il più equivoco dei diritti sovrani, lo riconosce diritto di maestà. E si rende conto che, senza, il diritto di grazia sarebbe un negozio impossibile tra il colpevole e la vittima, anche se questa non è morta.
Derrida va oltre, nella conferenza-saggio “Perdonare”, argomentando la prescrittibilità della cosiddetta colpa collettiva: “È possibile domandare o concedere il perdono a un altro che non sia l’altro singolare, per un torto o un crimine singolare”? chiede retoricamente. E conclude: il perdono è fatto per l’imperdonabile.
Derrida analizza il perdono, o grazia, in contrasto con Jankélévitch, che nel 1971, discutendosi in Francia l’imperscrittibilità dei crimini nazisti, si era dichiarato a favore, con note violentemente polemiche contro la Germania. Ma Jankélévitch stesso aveva appena, 1967, argomentato diffusamente il perdono come sfida alla logica penale. E anche suo compimento.
Più in particolare, a Jankélévitch 1971, che afferma non potersi concedere il perdono a chi non lo chiede, professandosi perciò colpevole, Derrida obietta: “Vi è nel perdono, nel senso stesso del perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento, un appello (chiamatelo come volete) che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si confessa”. Il perdono proponendo, seppure come ipotesi, come “dono”, la grazia sovrana: “Noi ci domanderemo se paradossalmente la possibilità del perdono come tale, se ce n’è, non abbia origine. Noi ci domanderemo se il perdono non comincia laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile”.

Heidegger – Il silenzio di Heidegger sulla guerra e lo sterminio degli ebrei era stato denunciato da Jankélévitch nel 1971 (nella raccolta “L’imprescriptible”, 1986, tradotta parzialmente, col titolo “Perdonare?”): “Heidegger è responsabile per tutto ciò che ha detto durante il nazismo, ma anche per ciò che non ha detto nel 1945”. Jankélévitch si cautela dietro Robert Minder, il germanista del Collège de France, allievo di Marc Bloch e Lucien Febvre (“Heidegger è responsabile, dice con forza Robert Minder….”), ma l’accusa è parte di un’invettiva generale contro il popolo tedesco a sostegno dell’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, il nuovo concetto emerso dal processo di Norimberga: “Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono?” Colpa tanto più grave nell benessere materiale goduto e esibito: “Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d’essere al perdono. Quando il colpevole è grasso, ben nutrito, prospero, arricchito dal «miracolo economico», il perdono è uno scherzo sinistro. No, il perdono non è fatto per i porci e per le loro scrofe. Il perdono è morto nei campi della morte”. Un ragionamento falsato dalla polemica. Ma il silenzio c’è stato e c’è, fragoroso.

Lo Heidegger “marxista” sarebbe controrivoluzionario? È ciò che sospetta Ernst Bloch, “Il principio speranza”, che l’angoscia, l’inquietudine (Sorge = souci), e la vita-per-la-morte riporta alla crisi della borghesia: “Corrisponde allo stato in cui vivono certi grandi borghesi, che, così come Heidegger definisce la condizione umana in generale, si trovano in una posizione precaria e pericolosa”. L’assurdo è “il malessere della borghesia eretta in assoluto metafisico”. Un’analisi più marxista che utopista. Ma è vero che la morte è controrivoluzionaria: “La controrivoluzione si serve dell’idea della morte mettendola avanti come unico «fine» da assegnare alla vita”. E insomma “l’uomo di Heidegger è rappresentativo della borghesia decadente, o ostinata a persistere nella sua  nullità accettata”.

Il “das Da” è di Kafka, “Il processo”, il “qui-presente”.

Immagine – Elevata a regina della comunicazione e dell’immaginazione, sostituto della parola, “specchio della cosa”, da Junger a Antonioni, si è presto svilita. Dove più sembra trionfare, nei social, sommersi dalle immagini che presto sono diventate “inutili” e insignificanti: false, truccate, montate, menzognere, anche quando sono belle – al meglio reggono, le “virali”, quando sono strane  o eccessive. Già questo è un limite, che l’immagine dev’essere peculiare. Ma, poi, anche questo è un limite: più strane sono più sono inappetenti, truccate. L’immagine è presa al suo laccio, di voler essere veritiera. Resiste, con limiti, quando è – si propone come – bizzarra.

Storia – Va per generazioni.

È l’eterno divenire – l’Essere che si rivela. Cioè il presente.

zeulig@antiit.eu

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