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martedì 12 settembre 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (338)

Giuseppe Leuzzi

Sudismi\Sadismi
“Per noi che siamo beduini, gli accordi sono un fatto di sangue”.
“Io sono calabrese, ed anche per me, per la regione da cui provengo, conta il sangue”.
È il resoconto dell’incontro tra il ministro dell’Interno Minniti e i capi tribù libici, convocati al Quirinale per un tentativo di pacificazione. Lo racconta “L’Espresso” faceto, ma questa era la cronaca del quotidiano milanese “Libero” il 4 aprile – solo di “Libero”.

Il pezzo di carta
Non ci si laurea prima dei trent’anni, in media, in molte università del Sud secondo le graduatorie del Miur pubblicate dal “Sole 24 Ore”. Per essere più precisi, le università dove l’età media dei laureandi è sui trent’anni sono tutte del Sud: Camerino 27,8, Teramo 28,9, “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, 29,  Link Campus di Roma (iscritti in prevalenza meridionali) 34,2. Tutti esamifici, peraltro, più che centri di studio e formazione, anche se pubblici come istituto, a Teramo e Camerino. La “Dante Alighieri” di Reggio è una università privata per stranieri, come l’analoga di Perugia (che viene poco sotto per l’età media dei laureandi: 27,7), ma è aperta agli italiani – ha un migliaio di iscritti.
Analoga la graduatoria a rovescio per quanto riguarda la durata “media” dei corsi di laurea: il peggio è al Sud – eccetto una altrimenti ignota “Humanitas University”, mezzo latina e mezzo inglese, di Rozzano in provincia di Milano. Alla “Parthenope” di Napoli, l’ex Istituto Navale, oggi legato per Ingegneria a Apple, ci vogliono 8,6 anni. Seguono la “Dante Alighieri” di Reggio, con 7 anni, e l’università della Basilicata, 6,5.
Dietro questi lunghi corsi di studio si immaginano molte spese per viaggi e soggiorni fuori sede, molte bugie, esami passati per caso, e infine una laurea senza valore – in molti casi neppure legale. E una pratica sociale più sciocca, nel 2017, che arretrata: oggi s’immaginerebbe che tutti sappiano che gli studi hanno valore se danno una professione e una specializzazione. In sé, sopratutto se subiti, contro ogni interesse e volontà, sono uno spreco, di denaro, che per molte famiglie è raro, e di opportunità: uscire dall’università, tanto più se fantomatica, a trenta anni con un pezzo di carta inutile segna a una vita da niente. Da disadatti. Senza studi, in realtà, e senza un mestiere.
Di questa folle vaghezza del pezzo di carta fanno le spese anche alcune università pubbliche, per il numero elevato, e il relativo costo senza ritorno, degli abbandoni. Tutte, anche queste, meridionali -  a parte la solita “Humanitas University” di Rozzano. Dopo Rozzano, dove “si laurea” solo il 2 per cento degli iscritti, viene Napoli II (ora “Luigi Vanvitelli”), con un 11,5 per cento  di laureati sul numero degli iscritti. Terza la “Magna Graecia” di Catanzaro, seconda università calabrese per numero di iscritti, 12,2. Quindi la Basilicata, 12,8. E Salerno, 14,1.  

La minoranza si vuole superiore
Degli Albanesi venuti al seguito di Catriota, si operò con insistenza la latinizzazione. “I vescovi cattolici”, racconta l’“illuminato” Bartels nelle “Lettere dalla Calabria”, “gelosi dei Greci che si formavano sotto di loro, si unirono ai baroni, i quali mal sopportavano che un numero consistente di loro sottoposti fosse esentato da ogni imposta, com’era il caso soprattutto degli abitanti della città di Corone fatti venire da Carlo V, e dei preti con le loro mogli e i loro figli”. Gli Albanesi erano di rito greco.
Ma presto, più che l’ortodossia, preoccupò Roma “l’ignoranza crassa che si era diffusa” tra gli Albanesi di Calabria, continua il viaggiatore tedesco, futuro borgomastro a vita di Amburgo. Clemente XII creò allora un collegio greco, “Benedetto Ullano”, perché vi si temessero corsi di morale e di teologia per i preti-pope. “Il primo istitutore fu monsignor  Rodotà (il bibliotecario vaticano, n.d.r.), nominato arcivescovo in partibus ma sottoposto al vescovo di Bisignano. Dopo la morte di Rodotà, continua Bartels, “il collegio è decaduto; e se prima, grazie alla sua opera, un po’ di civiltà penetrava tra questi montanari, ora non  v’è nemmeno l’ombra”.
E tuttavia – conclude Bartels: “E tuttavia gli Albanesi si credono superiori, e non di poco, al resto dei Calabresi”. Come tali sono risentiti nei comuni limitrofi e in quelli misti.

L’antimafia manzoniana
Una megastruttura balneare a Nord di Reggio Calabria, l’Oasi di Pentimele, è stata oggetto per anni di “atti vandalici”, il nuovo nome che si è deciso di dare ai vecchi “avvertimenti” mafiosi – il genere: se non paghi sarà sempre peggio. Tutti denunciati all’autorità giudiziaria. Senza esito. Finché un anno fa il Prefetto non ha notificato ai gestori una interdittiva antimafia. Provvedimento di natura “cautelare e preventiva”, secondo i codici, che però ha effetto immediato: esclude i gestori da ogni contatto con la Pubblica Amministrazione, e quindi dal rinnovo annuale della concessione.. Senza nominare un supplente o commissario ad acta, per i necessari adempimenti burocratici della struttura. E senza avviare procedimenti penali contro i gestori stessi.
Gli “atti vandalici” invece hanno continuato a essere perpetrati. Con danneggiamenti di varia entità.  Ma cadenzati; cioè non casuali, per ubriachezza, teppismo, dispetto. Senza alcun accertamento penale da parte degli inquirenti.
Il Prefetto ha “messo le mani avanti”, si è premunito. Ma Manzoni, che pure ne ha analizzate tante, dei predecessori del Prefetto, di questa si sarebbe meravigliato.

Sicilia
Garibaldi si apprestava a liberarla già nel 1848. Passato in Svizzera dopo il fallimento del ’48 a Milano, era rientrato nel regno sabaudo, a Genova. Dove, dice Dumas, “accettò la proposta della  deputazione siciliana di recarsi in Sicilia per sostenere la causa della rivoluzione”. È il primo schema dei Mille. Ma come sarebbe andata nel ’48, sarebbe stata un’Italia repubblicana? Un’Italia che si sarebbe liberata partendo dal Sud?
Garibaldi era anche partito per la Sicilia: “Con trecento uomini si diresse a Livorno”, dice Dumas. Ma al momento d’imbarcarsi seppe della  Repubblica Romana, e cambiò itinerario.

Fa grande caso Dumas nelle sue opere più tarde - specialmente ne “I garibaldini”, dove lo ritrova tra i sobborghi marinari (allora) di Messina, dai nomi beneauguranti di Pace e Paradiso - del capitano Arena, persona e personaggio del suo romanzo di viaggio “Lo speronare”, insieme col giovane militare francese esule De Flotte: un siciliano dal “volto buono, sempre sereno, anche nella tempesta”. Una figura che avrebbe servito molto all’immagine, oltre che alla psicoanalisi, del Siciliano. Ma in Sicilia, dove pure si ama il feuilleton, il Dumas sicilianofilo è snobbato, praticamente sconosciuto.

Anche la Sicilia ha il suo “miracolo Shangai” quest’anno, come la Calabria. Anzi più miracoloso: l’università di Palermo è classificata dall’Arwu (una sorta di Anvur) dell’università Jaotong di Shangai “tre la prime cinquecento in tutto il mondo”. Cinquecentesima (è la sedicesima tra le università italiane )?

Prefazionando la mostra che la Rai venticinque anni fa dedicò ai grandi scrittori siciliani fotografi, Verga, Capuana e De Roberto, Sciascia caratteristicamente li diminuisce: erano dilettanti, comunque incapaci di leggere l’immagine, non come Barthes, o come questo o come quello. In genere, come i francesi. Per esempio Zola: quando Capuana a Roma spiegò a Zola come la fotografia fosse utile alla scrittura, Zola, dice Sciascia, lo compatì, come se gli offrisse delle foto spinte. E anche lui compatisce Capuana, non Zola – la cui moglie Alexandrine invece aveva capito benissimo, e lo ha anche scritto.

Non c’è paragone tra Sicilia e Calabria per l’accoglienza. La qualità dei servizi, la pulizia, la continuità, la cura - degli spazi pubblici, della casa e dei borghi, della cultura, dell’innovazione, dell’agricoltura, dei manufatti, specie artigianali. Per tutto. Eppure un siciliano ritiene un calabrese uno alla apri, e viceversa, la Calabria spesso pensa di surclassare addirittura la Sicilia. Effetto di una vecchia tradizione – i Normanni arrivarono in Sicilia dopo un secolo in Calabria, nel Trecento? O dell’emigrazione: ancora nel Quattrocento, molte maestranze erano a Palermo calabresi? O del Risorgimento - i moti, carbonari, massonici, liberali, partirono a Reggio prima che a Messina? O della nuova specialità, le mafie?

Ma c’è - per la contiguità territoriale? per il comune dialetto latino? - una comunione bizzarra tra estremi molto diversi. Reggio e Messina si scambiarono molti patrioti nei moti del 1848 e precedenti. Francesco Stocco, il più eminente tra essi, messinese, fu condannato a morte per aver fomentato l’insurrezione dei reggini nel ’48 – fu poi organizzatore dei Cacciatori della Sila e in genere dei volontari calabresi nell’impresa dei Mille (da comandante della cosiddetta “compagnia dei Savi”, perché ebbe come soldati e ufficiali futuri deputati, senatori, ministri).

Rosario Crocetta, presidente uscente della Regione, ha cambiato 47 assessori in cinque anni. Ma il motivo è semplice, dice: “Sono stai i partiti (quelli che lo sostengono) a fare pressione… Prima hanno voluto i tecnici. Poi i politici. Infine, sono entrati i deputati regionali, ed è tornata la quiete. Chissà perché”.

Nel dicembre 1972 si temeva a Palermo un convegno di studi normanni importante, preparato da tempo, Che si aprì nell’imbarazzo, racconta lo storico inglese Abulafia: era appena crollata un’ala del palazzo della Zisa, la quale era stata chiusa per restauro dal 1955, cioè da diciassette anni.

Il Tribunale di Enna può contare, caso quasi unico, sulla piena copertura dell’organico, di giudici e cancellieri. Ed è il Tribunale con più arretrato.

“Palermitani con la valigia. Ogni mese partono in mille” - “la Repubblica-Palermo”. Non sono pochi. Per lo più diplomati o laureati.

leuzzi@antiit.eu

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