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giovedì 28 marzo 2019

La lotta per l'umanità nel lager

La vita quotidiana in un campo di concentramento tedesco durante la guerra, dapprima a Buchenwald, poi a Gandersheim, in un campo di lavoro, per le officine aeronautiche Heinkel, infine a Dachau, incontro agli Alleati e alla liberazione. Di prigionieri politici, detenuti comuni, russi e polacchi prigionieri di guerra, e italiani e francesi al “lavoro obbligatorio”.  Con una nota sulla ricezione critica, all’uscita nel 1947 e dopo, di Alberto Cavaglion. E una nota di Hermann Langbein sui campi di concentramento hitleriani – Langbein, scrittore e giornalista austriaco, comunista, aveva passato la guerra come prigioniero politico nei lager, dal 1942 a Auschwitz - carcerato come “nemico” in Francia, dove aveva cercato rifugio dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania. 
Il racconto scontato dell’inferno, di fame, percosse, insulti. Tra i detenuti, per un po’ di spazio, una goccia di zuppa, un posto alle latrine nella ricorrente dissenteria. E per le gerarchie che vi si stabilivano con i kapò di vario ordine, tedeschi politici o criminali, polacchi per la conoscenza del tedesco, interpreti, detenuti con statuto privilegiato, esecutori volenterosi dell’organizzazione distruttiva del campo. Sotto la sorveglianza distaccata delle SS, che quell’umanità vogliono non umana, e il disprezzo e gli abusi dei civili tedeschi in fabbrica. Molti gli italiani, senza nome, pestati, sanguinanti, caduti – una delle ultime scene è di uno “studente di Bologna”, che la SS seleziona senza ragione per assassinarlo, durante l’ultimo trasferimento.
L’ultimo trasferimento, a piedi, su trattore, in treno, da Gandersheim, presso Goslar, a Halle, Dresda, Praga, Dachau (Monaco di Baviera), è un viaggio follemente ben organizzato. A  Nord, all’Est e a Sud, per andare verso l’Ovest. Prima del quale deboli e ammalati vengono uccisi, in piccolo gruppi e singolarmente – uno dei tanti trasferimenti, ora si sa, per cancellare la vergogna dei lager, nel quadro del tentativo di Himmler di farsi controparte credibile, lui e le stesse SS, degli Alleati nella sconfitta. A Praga, dove non si parla tedesco, e il tedesco di guardia “deve stare attento”, l’unico segno di umanità delle quasi quattrocento dense pagine: una donna alla stazione regala tre pacchetti di pane “e qualche sigaretta”.   
Benché scontato, il racconto mantiene però la carica che lo impose all’uscita, nel 1947: una sorta di disperata vitalità. Riflessa nell’ossessività: la lunga narrazione è il dipanarsi di un filo sottile di resistenza attraverso le stesse ripetute quotidiane aggressioni, tra personaggi alla fine di nessuno spessore, ma schierati in una sorda battaglia per l’“umanità”. Non per la sopravvivenza, o meglio per la sopravvivenza ma non individuale, personale: “Le SS che ci confondono non riusciranno mai a fare in modo che noi ci si confonda” (104);“Più si è negati dalle SS come uomini, più si accrescono le possibilità di affermarsi come tali” (114). Più di tutto pesa, e suscita odio, l’odio dei civili. Ma la “filosofia” umanitaria è indelebile (256-8): “Le SS non possono cambiare la nostra specie… Noi restiamo uomini, finiremo come uomini… Proprio perché siamo uomini come loro,  le SS in definitiva saranno impotenti davanti a noi”.
Fu il secondo contributo di conoscenza dei lager, nel 1947, dopo quello dello stesso 1945 di David Rousset, “L’universo concentrazionario”. Entrambi sui campi di lavoro, prima che emergesse la realtà dei campi di sterminio. Con Primo Levi, che pubblicava nello stesso 1947 il racconto della sua vicenda, “Se questo è un uomo”, ma nell’indifferenza, malgrado una buona recensione di Calvino – ma rifiutato dallo stesso editore di Calvino, Einaudi, a opera di Pavese e Natalia Ginzburg; altri racconti della persecuzione degli ebrei, già nel 1945, e poi nel 1946 e nello stesso 1947, erano caduti in Italia nella disattenzione. E con “I dari di Anna Frank”, pubblicati in Olanda sempre nel 1947.
Antelme, marito allora di Margherite Duras, membro di un gruppo di Resistenza organizzato da Mitterrand, era stato preso a Parigi per una delazione nel 1944. Era stato salvato in extremis a Dachau, confinato al lazzaretto dei sospetti di tifo, cioè dei moribondi, da Jean Mascolo, che era divenuto l’amante di Marguerite Duras, e dallo stesso Mitterrand. Il ritrovamento a Dachau e il ritorno sono raccontati da Duras ne “Il dolore”. Che termina con le immagini di Antelme, Duras e Gina Vittorini sul mare a Bocca d Magra. Vittorini amò molto questa testimonianza, la fece tradurre nel 1954 per i “Gettoni” – la traduzione, toscaneggiante, è della stessa Ginetta – e la presentò, scrive Cavaglion, con “uno dei suoi migliori risvolti”.
Lo stesso tema, nota Cavaglion, aveva appassionato Vittorini nella Resistenza, in “Uomini e no”, la riflessione del 1944. Si rifletteva, nella temperie politica del dopoguerra, molto schierata, molto divisiva, con occhio perspicace sulla storia, sul farsi dell’umanità. Con un occhio si direbbe ottimista, in rispetto all’obbrobrio ancora vivo con cui si confrontava, ma comunque vigile – il Millennio è di colpo un altro mondo?
Robert Antelme, La specie umana, Einaudi, pp. XIX + 343 € 14

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