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martedì 24 marzo 2020

Letture - 413

letterautore

Arbasino – “È stato uno dei rarissimi scrittori italiani degli ultimi cento anni che non aveva nulla da rimproverarsi sulla parte politica, nulla da far dimenticare”, è l’elogio di Calasso in morte. Non era stato fascista e nemmeno comunista.

Avanguardie – “Sintomo di crisi” le dice Claude Lévi-Strauss (“Primitivi e civilizzati”), in quanto ricerca voluta, teorizzata, di qualcosa di nuovo: “Le grandi rivoluzioni estetiche, se sono profonde, si attuano a un livello molto meno cosciente”. Non sono la smania e il progetto del nuovo:”Cercare volontariamente e sistematicamente di inventare forme nuove è un sintomo di crisi”. Di decadenza.

Corona virus – Virale è il mondo secondo Darwin. David Quammen, che con “Spillover” nel 2012 descriveva l’epidemia attuale, lo dice a “La Lettura”: “La mutazione genetica casuale è alla base dell’evoluzione fondata sulla selezione naturale: le variazioni permettono alle particelle dei virus di reagire in maniera diversa alle circostanze presenti nell’ambiente,  le particelle virali più forti sopravvivono. Un po’ grossolanamente è la teoria di Darwin”.

Il romanzo del virus, “The Eyes of Darkness”, scritto nel 1981, da Dean Koontz (con lo pseudonimo “Leigh Nichols”), è stato tradotto immediatamente, in pochi giorni, da Fanucci, ma non è riedito in originale, in America.
Koontz l’aveva pure aggiornato nel 1989, ribattezzando il virus letale Wuhan-400. Originariamente, quando l’Unione Sovietica sembrava imbattibile e lanciava le Guerre Stellari, lo aveva chiamato Gorki-400.

Travia l’opinione pubblica, diceva Manzoni, nel romanzo, della peste: “Il buon senso c’era  ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

La peste è tema letterario diffuso. Il primo fu Erodoto, a proposito della peste di Atene del 430 a.C. Ripreso da Virgilio nelle “Georgiche”, e da Lucano nel “De Rerum Natura”. C’è pure in Ovidio, Lucano, Silio Italico, Paolo Diacono nella “Storia dei Longobardi”. In Boccaccio naturalmente. Di più ha colpito gli autori moderni: Defoe, “La peste di Londra”, Manzoni, Camus.

Genere – Nel sito ufficiale della Banca centrale europea Isabel Schnabel è “un economista tedesco”, che è “diventata professore” a Bonn.
La concordanza si fa come capita – come non si scrive cioè, ormai “la scrittura” è una colpa, grave – indifferentemente?
Quello femminile si appropria di tutti i generi: è professoressa e professore, economista maschio e economista femmina? E probabilmente Schnabel non è nemmeno lesbica.

Preti – In regime ordinario, non anticlericale, nel “Calzolaio di Vigevano” di Mastronardi, ambientato a cavaliere della guerra, il protagonista li dice “quella gente che, varda, se non ci fossero ci saria più religiun”.

Scrittura – Faceva lo scrittore, un tempo. Lo identificava: lo stile, il passo, la sintassi, le sonorità, eccetera.Ora è una colpa: si scrive – si insegna  scrivere, nelle scuole di scrittura – per generi: sceneggiatura, racconto, romanzo, romanzo d’avventura, thriller, romantico, etc.. La scrittura fa scappare tutti, redattori editoriali e critici - non ci sono più i professori di letteratura.

Shakespeare – Mancava quello catalano, nel centinaio di Shakespeare in circolazione - sul tema “Shakespeare non è Shakespeare”, è un altro. Ora c’è: Shakespeare è catalano, dimostra l’Institut Nova Història di Barcellona – come lo sono del resto Colombo e Leonardo, e anche Cervantes, benché scrivesse prolisso in castigliano. Anzi, Shakespeare e Cervantes sono la stessa persona: un catalano di Alicante, di nome Joan Miquel Sirvent, che quando ripara a Londra per sfuggire all’assolutismo spagnolo, si fa chiamare William Shakespeare. Cioè, due volte “sono e sarò”. Che in inglese, secondo l’Institut, si dice “Will I am” e in catalano “soc i seré”.
Si penserebbe uno scherzo – o anche una satira del vezzo di dire uno un altro. Ma si fanno rivoluzioni per questo.

Società delle nazioni – Incubava l’antisemitismo, le carriere svolgendosi all’ombra della massoneria, che molti identificavano con gli ebrei? È la scena del primo scritto di Céline, “La chiesa”, 1926, da neo funzionario della Sdn, che mette in scena una mafia-massoneria ebraica, in fatto di carriere, e anche di donne, di “conquiste femminili”. Lo steso farà Albert Cohen, che negli stessi anni 1920 lavorava alla Sdn, alla Organizzazione Internazionale del Lavoro (Céline in quella che poi sarà l’Oms), con “Bella di giorno”, perfino più violento del Céline 1926 – che tutto sommato è una commedia. 

Vico – Gli ultimi suoi lettori, e esegeti, saranno stati due irlandesi, Joyce e Beckett. Beckett si può dire l’ultimo, nel 1938, che apre nel suo nome la miscellanea dall’ironico titolo “Our Exagmination round his Factification for Incamination of Work in Progress”, la dozzina di contributi sulla scrittura di Joyce – il lavoro in cantiere è “Finnegans Wake”. E smantella, nientedimeno, il Vico di Croce:
“Giambattista Vico fu una pragmatica testa d’uovo napoletana. Croce si compiace di considerarlo un mistico, essenzialmente speculativo, “disdegnoso nell’empirismo” (in it., n.d.r). Un’interpretazione sorprendente, considerando che più dei tre quinti della sua “Scienza nuova” riguardano ricerche empiriche. Croce lo oppone alla scuola riformistica materialistica di Ugo Grozio (in it. n.d.r.), e lo assolve dalle preoccupazioni utilitaristiche di Hobbes, Spinoza, Locke, Bayle e Machiavelli. E questo non si può ingoiare senza proteste. Vico definisce la Provvidenza come  “una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari che essi uomini si avevano proposti; dei quali fini ristretti fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra” (in it. n.d.r.). Cos’altro potrebbe essere più chiaramente utilitarismo? Il suo trattamento dell’origine e delle funzioni della poesia, del linguaggio e del mito, come vedremo più in là, è tanto lontano dal mistico quanto si possa immaginare” – Beckett riprende ampiamente Vico nel suo intervento. 

letterautore@antiit.eu

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