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venerdì 7 luglio 2023

Cronache dell’altro mondo – anti-affirmative (239)

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha condannato la “affirmative action” nelle procedure di ammissione all’università in favore delle “razze colorate”, come contraria al 14mo Emendamento – il disposto costituzionale della “equa protezione”, tutti gli esseri umani, dovendosi trattare, a prescindere dalla razza, alle stesse condizioni davanti alla legge.
La Corte ha rovesciato, in una delle tante cause avviate da giovani “bianchi” contro le università, in questo caso contro Harvard e contro l’università della North Carolina, il principio su cui la “affermative action” era stata introdotta nel 1965, a protezione degli svantaggiati, essenzialmente i giovani di colore.
La Corte ha rovesciato la lettura delle statistiche prodotte nella difesa di Harvard. Prendendo il caso degli studenti candidati all’ammissione con un punteggio rientrante fra il 10 per cento migliore. Un asiatico (la “affirmative action” prescrive che i candidati si classifichino razzialmente)avrebbe il 12,7 per cento di possibilità di entrare a Harvard. Un bianco il 15,3 per cento. Un ispanico il 31,3. Un nero il 56 per cento.
Allargando le maglie, un bianco che rientrasse nel miglior 40 per cento dei canddati avrebbe meno del 2 per cento di possibilità di essere ammesso. Un asiatico meno dell’1 per cento. Un ispanico meno del 5 per cento. Un nero il 12,8 per cento. Un nero, cioè, che rientrasse nel 40 per cento avrebbe avuto più opportunità di un asiatico che si fosse classificato nel miglior 10 per cento.
La decisione della Corte, a maggioranza conservatrice, non è stata criticata questa volta come reazionaria. La politica universitaria di “affirmative action”, nota anche come “azione positiva” o “discriminazione positiva”, è emersa negli Stati Uniti, su inziativa del presidnte Lyndin Johnson, nel 1964 e nel 1965, nell’intento di favorire il miglioramento sociale delle comunità marginalizzate. Nel caso delle università si era tradotta in un accesso di favore per i giovani di famiglie razzialmente disagiate o discriminate, che però si concludeva il più delle volte, secondo un’inchiesta dieci anni fa del magazine progressista “The Atlantic”, con abbandono e dispersioni – cioè con costi per le famiglie senza opportunità reali.

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