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venerdì 30 gennaio 2009

Barlaam, il Leibniz di Seminara

Ottimo esempio di storia locale “alta”, da parte di un avvocato di paese, insegnante di liceo. Che arricchisce e “supera” gli studi che Giovanni Gentile dedicò a Barlaam, dopo secoli d’ignoranza. Al Concilio Tridentino Barlaam fu creduto due, uno d’Oriente e uno d’Occidente. Per lo studioso gesuita Marcel Viller, storico della filocalia, autore del “Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique”, Barlaam era un secolo fa un israelita, che adorava contemporaneamente sia Geova che Baal. Il recupero è opera di un albanese di Sicilia, Giuseppe Schirò, e di uno di Calabria, Cassiano. Nel quadro di un ritorno alle radici greche che si origina in Grecia, nel recupero del bizantinismo che si fa da un trentennio, e non in Italia. E in particolare del monachesimo.
Il monachesimo è stato ed è molto diffuso nella chiesa ortodossa greca. Un solo ordine monastico si registra, quello di san Basilio. Che però, diviso in due osservanze, il cenobitico, o comunitario, e l'idiorrittmico, o individuale, raccoglie entità molto diverse, per qualità, organizzazione, capacità. E' un grande ordine, ma con una gerarchia molto allentata e con espressioni diverse, dall'eremita incontrollabile ai monasteri spesso localizzati in zone desolate e impervie, le Meteore, il monte Athos. Un po' è anche vittima della latinità. Tanto più per non avere i basiliani, in Grecia come in Calabria, curato gli archivi, pur operando alla perpetuazione degli scritti antichi, al contrario di quanto hanno fatto i monasteri occidentali, una delle fonti documentarie più ampie. Ma quella dei basiliani è una storia da scrivere.
Bernardo Massari di Seminara, che si farà monaco col nome di Barlaam, letterato e diplomatico del Trecento, al centro a Bisanzio di un importante progetto unionista con Roma, maestro di greco di Petrarca, nonché maestro di Leonzio Pilato, altro grecista illustre, che accompagnò Boccaccio nei lunghi tentativi di traduzione di Omero, emerge in questo studio persuasivamente come filosofo precursore di Leibniz, in una vasta produzione solo in piccola parte edita. Con le nozioni di lògoi ousiòdeis, i concetti puri, e di giudizi, axiòmata, che consentono di conoscere gli enti, l’universale (to katholon) e l’individuale (ta kathékasta), l’essere: “immagini e reminiscenze delle ragioni teoretiche e demiurgiche che il Creatore predispose agli enti indivisibilmente e singolarmente, (per cui) diciamo che questi sono di per sé anteriori, e dimostrano ciò che esiste nel mondo fisico”.
L’intelletto, riassume Cassiano, non è la tabula rasa di Aristotele, possiede dei concetti e dei giudizi che rendono possibile e inverano la conoscenza. La conoscenza è quindi apriori. Ma non soltanto: ci sono delle “congiunzioni”, dei ponti con i fatti e gli eventi. “L’intelletto attivo e gli oggetti intelligibili stimolano una relazione di reciproco rapporto. Quando, cioè, l’intelletto attivo è tale da poter capire gli oggetti intelligibili, e gli oggetti intelligibili sono tali da poter essere capiti dall’intelletto. Si dice allora che l’intelletto si congiunge con questo oggetti in maniera conforme”. Una dottrina della conoscenza, nota Cassiano, che supera sia il platonismo che l’aristotelismo, anche se all’apparenza ne sembra un’ibridazione, è cioè originale, e prelude all’innatismo virtuale leibniziano.
Barlaam aveva ragione anche in materia di fede. La materia per la quale fu sfidato e vinto a Bisanzio da Nicéforo Gregoras e Gregorio Palamas, monaci localmente più potenti. Nicèforo Gregoras, che usava riscrivere sull’attualità le sue opere, comprese le lettere, non ha buona fama tra i bizantinologi. Ma col prossimo santo Palamas, e col gran ciambellano Cantacuzeno, che col bigottismo si aprì la strada al trono, ebbero facilmente ragione di Barlaam, in tre o quattro sinodi appositamente convocati contro di lui. Il fondamento della conoscenza divina è semplicemente la fede, Barlaam ribatteva caustico ai teologi bizantini che lo accusavano di essere uno scolastico latino mascherato di ortodossia: “Ogni dichiarazione, pronunciata dai venerabili Padri e concernente la divinità, avrà per noi la stessa efficacia che ha, per chi è pratico di geometria, il principio, la nozione universale, l’assioma. Non ci sarà quindi motivo di accertarla tramite sillogismi”.
Gli sfidanti ebbero ragione di Barlaam soprattutto per il motivo che egli sarebbe stato una quinta colonna della latinità in terra romea. Ma Barlaam, dice Petrarca, tanto era dotto in greco quanto indigente in latino (poverissimo: Vir, ut locupletissimus graecae, sic romanae facundiae pauperissimus). Ma non è vero nemmeno questo, Lenormant lo giudica “per i suoi tempi notabilissimo in latino per la parte linguistica”. Esperto, oltre che dei filosofi greci, di Tommaso d’Aquino e dell’ultimo nominalismo scolastico. Abate (igumeno) a Costantinopoli di uno dei conventi più importanti per i greci, quello di S.Salvatore, ma ambasciatore e mediatore per conto del papa, oltre che alla fine vescovo. Schirò, che lo ha riportato in luce insieme con Gentile, argomenta piano: dovette avere qualità e prestigio prima di salpare per Tessalonica e Costantinopoli, per ricoprirvi posizioni di prestigio.
Ma Barlaam fatica a uscire dalla trascuratezza nella quale è caduto tutto il mondo bizantino in Italia. Le sue lettere da vescovo di Gerace, pastorali e diplomatiche, lo attestano buon scrittore di latino, si può dire per l'autorità di Gentile. Fu vescovo di Gerace dal 1342 peraltro su raccomandazione del Petrarca stesso, molto influente ad Avignone col papa Clemente VI, e di re Roberto. Al Petrarca, argomenta Gentile in "Studi sul Rinascimento", trasmise la prima conoscenza, prerinascimentale, di Platone.
Domenico Cassiano, Barlaam Calabro, Nuova Arberia, pp.98, € 8

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