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venerdì 30 gennaio 2009

Obama e la democrazia plebiscitaria

Dopo Obama e la sorpresa americana, la capacità dell’America di rinnovarsi, grande è il cruccio in Italia per la politica stantia. Dove però, anche se Sartori non lo sa, lo scienziato americanista, la novità c’è da tempo, ed è impersonata da Berlusconi. Col suo partito del presidente. Che Prodi, l’unico che l’abbia capito con Berlusconi, ha copiato, con successo. E Veltroni, copia di Prodi, con insuccesso. L’America è giunta a Barack Obama dopo un trentennio di “partiti del presidente”. Le presidenziali si giocano fra due-tre partiti del presidente, fra chi riesce a stregare i votanti con la campagna elettorale di un anno, e molti outsider hanno vinto, Carter, Reagan e Clinton prima di Obama.
Il fatto è poco percepito in Italia. Dove gli studiosi sanno degli Usa che hanno la costituzione per eccellenza della divisione dei poteri, e per la riforma delle istituzioni in Italia si dibattono fra il semipresidenzialismo francese, in cui la figura carismatica del candidato è ancora mediata e costruita dentro i partiti, o il maggioritario tedesco, dove i partiti e le coalizioni di partiti sono preponderanti. Mentre le ultime cinque campagne elettorali, l’ultimo quindicennio, sono state combattute distintamente fra partiti del presidente. Non per la proprietà dei media (la Mediaset di Berlusconi, la Rai di Prodi) e le carnevalate, ma per l’organizzazione. Tutto come in America. Anzi più che in America: in Italia la organizzazione del consenso su basi plebiscitarie non è la deriva della democrazia monteschieviana dei Padri Fondatori, sensibilissimi alla divisione e al bilanciamento dei poteri, ma un surrogato ai partiti dopo la loro implosione venti anni fa. Una via di fuga affrettata, dopo la fine del Pci per il crollo del comunismo sovietico, e la cancellazione degli altri partiti da parte del partito dei giudici, anche se si pretende una innovazione del sistema costituzionale sotto le insegne dello Stato decisionista, efficiente, e trasparente.
Presidenzialismo interrotto
Feste e talk show incidono, ma in quanto parte di una organizzazione del consenso di distinto tipo plebiscitario: attorno a un personaggio, per il carisma (energie positive, magnetismo, forza) e non per il programma, per consenso diretto e non mediato, ai fini del decisionismo, checché esso voglia dire - per una scienza politica esoterica. Il caso di Obama è da manuale, essendo la più potente creazione fantastica immaginabile, new media inclusi, orchestrata da un establishment (Chicago) che è il cuore duro del capitale americano, ferro e banche, mercato e protezionismo, e non la filantropica Silicon Valley, anche se altrettanto visionaria, seppure agevolata dalla emotività di donne e ragazzi, il 70 per cento degli elettori. I partiti anche in Italia sono macchine elettorali locali, coi loro potenti capoccioni comunali, provinciali, regionali, procacciatori di voti, i vecchi signori delle tessere. E un leader nazionale che di volta in volta li seduce o li coarta. Prodi anzi da questo punto di vista si può dire il migliore americano, ma Berlusconi è durato di più.
L’Italia naturalmente non è l’America. Ma perché si è fermata a metà: all’americanismo totale nei Comuni, le Province e le Regioni, o al presidenzialismo plebiscitario, dimezzato al governo centrale. Una volta eletto, il presidente in America è il numero uno in tutti i sensi, decide, comanda, e si farà rieleggere. In Italia una volta eletto il capo non conta nulla, la presidenza del consiglio dei ministri è residuo sabaudo, quando centro del potere si voleva la corona, e ora e niente. Si è avuto quindi Prodi spazzato via da Bertinotti o Mastella, Berlusconi da Follini (da Follini!).
Ma anche qui Berlusconi ora innova. A sinistra Veltroni ha puntato sulle primarie, l’investitura dal basso per ridurre alla ragione i riottosi e i capataz locali, per ppoi imporre il vecchio centralismo democratico che è il suo habitus mentale, ma ha fallito – praticamente ha fallito. Berlusconi invece va come un rullo compressore. Ponendo la museruola si suoi partitini con la fiducia su ogni votazione che comporti una spesa. Mentre politicamente gioca le sue fazioni l’una contro l’altra, con cinismo anche dichiarato, che capiscano chi comanda.
Il Parlamento irriformabile
È una situazione al limite della costituzionalità, dice il Capo dello Stato. Ma il presidente Napolitano da presidente della Camera ha avuto presente soprattutto l’esigenza di porre rimedio agli eccessi del parlamentarismo, ed è stato probabilmente, grazie all’uso accorso dei regolamenti, il presidente della Camera più “produttiva” della storia della Repubblica - pur essendo ingombra da quotidiani avvisi di reato. Il problema è questo, il fatto è noto, se ne discute da oltre vent’anni, e non è solubile: il Parlamento, che ha “americanizzato” rapidamente e con larghe maggioranze gli enti locali, non ne vuole sapere di “americanizzare” se stesso. Anche se il potere di legiferare è, ciò malgrado, al 99 per cento del governo. Anzi al 98 per cento, se ci sono 44 leggi di iniziativa governativa per ognuno di iniziativa parlamentare. E anche se la riforma delle procedure aiuterebbe il parlamentarismo: limitare le sessioni, limitare i dibattiti, limitare i passaggi parlamentari (commissioni consultive, commissioni deliberanti, una Camera, una seconda, e ritorno alla prima, e magari alla seconda). Darsi un minimo di efficienza e di ragione d’essere, altra che la nocività.

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