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giovedì 4 febbraio 2010

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (53)

Giuseppe Leuzzi

Enzo Scotti, sottosegretario agli Esteri, presiede il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno. Che infatti non esiste.

Una giovane insegnante molisana, giovane di trentatrè anni, gli anni di Cristo, supplente per i ripetenti di matematica a Monza in una scuola superiore, viene condannata quattro anni fa a due anni e rotti di carcere per atti osceni nei confronti di minori, cinque studenti a cui dava ripetizioni essendo stati trovati in abbigliamento discinto in sua presenza. I ragazzi non la accusano, ma il giudice di Monza la condanna. Inflessibile come i genitori di Monza: l’insegnante è un’incapace e ha un pesante accento meridionale. Ora l’insegnante è riconosciuta vittima dei cinque ripetenti, dopo aver passato quattro anni nella vergogna, e ormai, a 37 anni, fuori dal ogni lavoro.
Si sa nell’occasione che la supplente era stata pagata dalla scuole 447 euro. E questa è un’altra storia: emigrare da Isernia a Monza per “fare il professore”, per 447 euro.
Monza si è anche scoperta la capitale del consumo individuale di cocaina, la città dei bulli ripetenti che è stata e si vuole anche la più bacchettona d’Italia.

L’odio-di-sé-meridionale
Alla seguitissima trasmissione a premi “L’eredità”, Paolo Conti chiede a una concorrente veneta, una signora che si diletta di cucina: “In un ristorante calabrese le propongono «pipi arrustuti». Cosa sono?” La signora tituba. Infine, sbagliandosi nel pronunciare “arrustuti”, dice infatti “arrostiti”, opina trionfante per la terza di una quadruplice risposta plurima: peperoni arrostiti. Il conduttore ha in studio una bella ragazza che si è qualificata per calabrese, e le chiede se lei aveva avuto dubbi. “Oh sì”, risponde la velina, “io sono della Calabria superiore”. Che non si sa cosa sia e non c’entra nulla: le risposte alternative erano “spinaci”, “lumache”, “patate”.
Pipi e pepe, arrustuti e arrostiti, non basta avere un dialetto neo latino come il calabrese, un italiano dialettizzato, per essere buoni italiani. Specie con i calabresi, il rifiuto è pregiudiziale.

“La Stampa” trova a Rosarno, dove manda un inviato occasionale, che gli agrumi si “producono” per l’Unione europea, per incassare i contributi europei: “Ne raccoglievamo cento quintali e ne dichiaravamo cinquecento”. Sono i dati che il locale uomo del partito, o del sindacato, ha fornito. all’inviato. Che sono quelli di tutta l’Italia agricola, del latte, del grano, del bestiame, eccetera, ma a Rosarno sono illegali.
L’informatore è credibile, l’inviato non dubita, parla male del Sud. Leggere per credere: “Due anni fa sono cambiate le regole. Oggi i rimborsi arrivano a forfait: 1.500 euro a ettaro, a prescindere dalla produzione”. E Rosarno, “che fino a due anni fa aveva bisogno nei campi di 1.800 immigrati, oggi ne richiede solo alcune centinaia”. Ma come, prima i raccolti non erano inventati?
E i clandestini? “Bulgari e rumeni sono più appetibili degli africani: se li assumi in nero, rischi multe più lievi”. Ma a Rosarno è razzismo, sottintende l’informatore democratico.

“«Le altre questioni nazionali, laici e cattolici, liberali e socialisti, sono parole. Il problema vero insorto con l’unità è l’occupazione del Sud»”, dice un personaggio del romanzo di Astolfo, “Non c’è anarchico felice” (Lampi di stampa, pp. 676, € 21). Ma è un problema, dice ancora, “non grave, non più: «La questione meridionale è stata divisata per opprimere i meridionali, facendoli briganti, sfaticati, ladri, omertosi, che i carabinieri possano bastonare impuni. Tutte cose che loro adesso sono, dopo un secolo di propaganda, e così l’Italia tutta non ha un futuro, per la corruzione che la divora, a Sud e a Nord»”. Con una imprecisione, ma è vero. Non è vero che la corruzione del Sud abbia infettato il Nord, è impossibile, il Sud non ha di suo nemmeno i microbi. Mentre è incontestato che la questione meridionale è stata creata dal Risorgimento, a opera di meridionali, è vero.
La storia del Sud è ancora da scrivere. Alcuni domini mancano del tutto, con le loro culture, i linguaggi, le mentalità, e le persistenze delle culture: i micenei, i bizantini, i saraceni, gli albanesi, e la stessa Magna Grecia che è tutta da riscrivere, la religione, i linguaggi, dal dorico in poi, gli statuti giuridici, gli assetti padronali, i traffici e i legami, mediterranei ed extra. Anche dove è scritta, magari a profusione, solo pallido riflesso, stitico, incomprensibile, di logiche e realtà diverse. Remote, seppure dominanti. A opera spesso di sociologi e storici meridionali, perché no, che come tutti i servi s’impiccano all’albero del padrone – la corruzione dell’intelligenza è il primo delitto del colonialismo. E insignificanti malgrado il dominio, da qui la loro inefficacia, che è la prima causa del perdurante ritardo: l’unità dei carabinieri è come il cavallante che si limiti a strattonare la bestia, il cavallo non berrà, anche se ha sete.
La storia di chi non ha storia non è vuota. È piena di quello che ci mette chi lo priva di storia – poiché questa è un’operazione attiva, non si dà popolo senza storia, ma sì con lo svuotamento di essa. Nel quale, se si hanno dubbi o si scoprono tracce, si annaspa, tra echi, rimandi, omissioni, ellissi, eccezioni, pezzi di un puzzle impossibile da ricomporre. S’incorre in Barlaam da Seminara studiando Petrarca a fondo, nelle lettere, le confidenze, la vexata quaestio se e come conosceva Platone. Si scopre il reggimento calabrese nelle truppe inglesi antinapoleoniche studiando le collezioni di uniformi militari dell’epoca. L’analisi di come opera la dipendenza nella mentalità e la cultura, o anche soltanto nei consumi, alimentari, tessili, negli stili di vita e il linguaggio, resta da fare. Di come la subalternità è introiettata, la dipendenza che non è più imperiale e obbligata ma ricercata e comportamentale.
Riprendersi la storia sarebbe stato il primo impulso di una mentalità sana, non adulterata cioè dal dominio. E resta la chiave di ogni liberazione. Non la rivolta, non il rifiuto. L’antistoria o la controstoria, quale usava nel controinformazione, fornisce degli utensili, ma non il presupposto: per liberarsi è necessario non avere complessi d’inferiorità, né sudditanze, e nemmeno rifiuti. È necessario essere contro, ma con giudizio. In tutto il Sud, da Latina, o Frosinone, a Capo Dondra e Bali. La subalternità, già in Gramsci, è l’introiezione della dipendenza.

Pizzo
È una manifestazione del potere, non un assetto o una tara sociale. È sovrimposto alla società, in tutte le sue forme, non ne è espressione.
È il termometro della degradazione del potere. È anche una concezione di vita – è la base di una delle forme dello Stato secondo Max Weber, lo stato patrimoniale. Ma è anche un segnale della morbilità di un sistema di potere, da quello religioso a quello del lager.

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