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sabato 6 febbraio 2010

Che tristezza l'uomo solo

Tradotto da Dario Villa con brio, e al cinema dallo stilista Tom Ford con eleganza, è (in originale e anche a una lettura meno svelta) un racconto degli anni bui di Isherwood, lo scrittore inglese, qui trapiantato in California, cui il lettore deve la sempre viva trilogia di Berlino degli anni folli. Dovrebbe essere un’elaborazione del lutto per la morte accidentale dell’amico, è la giornata senza storia di un single nei primi anni 1960, di scrittura cupa, tra materiali inerti, la scontata paranoia su Los Angeles, la mania di costruire, la bomba, i vicini di casa, i ragazzi in strada, l’omofobia, che non c’è, i colleghi all’università, gli studenti, gli amici, le bevute. L’autostrada è l'unica libertà dell'uomo solo. Col conseguente elogio a metà libro dell’american way of life, in tutte le altre pagine disprezzata.
È il racconto senza filo di una giornata senza filo. O se si vuole dei sessant’anni dell’autore, che si rigenera alla “democrazia fisica” della palestra – e poi s’innamorerà di nuovo, di Don Bachardy, proprio come uno dei “vecchietti” che nel libro immagina parcheggiati dai vigili nelle case di riposo, dove si sposano, “anche a ottanta, a novanta, a cento anni”. Pruriginoso, cinquant’anni fa, forse anche quando fu riproposto, nella stessa traduzione, da Guanda tren'tanni fa, ogginemmeno questo.
Christopher Isherwood, Un uomo solo, Adelphi, pp. 148, € 16

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