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giovedì 20 maggio 2010

La vera Italia a Cleveland, Ohio

Il romanzo più “italiano” in circolazione non trova un editore italiano. Il miglior debutto letterario americano del millennio, anche. Sulla traccia di John Fante più che del citatissimo Faulkner, nella scrittura e nella tematica, il muro del cozzo di civiltà, malgrado l’applicazione, la costanza, la volontà, per le persistenze che non si cancellano, e forse è un bene.
È il tema che fa la scrittura, minuta, limitata, benché arricchita da rarities, hapax e idioletti - "il lavoro del romanziere è al 95 per cento scegliere la parola giusta", lo scrittore flaubertianamente dichiara. Scibona racconta in modo rapsodico, cinque o sei personaggi di “nessuna storia” (storia dei vinti, degli esclusi, dei marginali, dei paria, dei niente) stagliando icastici. Dalla fine della guerra di Corea nel 1953 a ritroso al 1915, attorno a un giorno che è la festa dell’Assunta, così familiare e remoto. Sei personaggi di solitudine estrema, nell’immenso paese "che non c'è" di cui sono orgogliosi, la storia fantasticandone e la geografia.
È un romanzo delle radici. I nomi scorrono anch’essi familiari e remoti, Mimmo, Ciccio, Rocco, Luigina, Bastianazzo, nel remoto Elephant Park, Cleveland, Ohio, Usa, sul lago Erie. Con la casuistica gesuita del liceo, bizzarramente essa pure familiare: Dio non può esistere e tuttavia esiste, è libero e non è libero, eccetera. Si gioca a scopa. E i negri fanno paura. Ma gli stessi italiani sono witish people, mezzi bianchi. Con il mondo femminile originario e vero, non quello suppostamente succube e incapace nella vulgata meridionalistica: mogli italiane che lasciano i mariti italiani, non si occupano dei figli, e surrogano gli uomini nel lavoro, anche in remote campagne, magari con più intelligenza, ma li compatiscono, nel tran-tran degli aborti clandestini. E col rifiuto delle radici che caratterizza l’emigrante, pur legato agli usi e alla lingua originaria, e anzi al dialetto. Ma con la nota accuratezza filologica dei letterati americani italiani già sperimentata nella serie del “Padrino” (sfuggono solo un Filipo e un Sienna, se non sono errori di stampa) i personaggi si riconoscono tra di loro stessi alla parlata, palermitana o siracusana. L’unico wasp è umbratile, non cresciuto, con i romanzi per ragazzi di Joseph Altscheler, “The forest runner” eccetera.
È un romanzo di formazione anche. Anche per l’aspetto italiano. L’autore si propone in biografia come il figlio cresciuto nella bambagia, che a venti o trenta anni non sa cosa fare: vorrebbe essere Dante ma non scrive, è stato in Italia un anno con la fondazione Fullbright non facendo nulla, che è molto italiano e un-americano. La rappresentazione è psicologicamente forte della vera natura delle radici, dell’identità “originaria”, che si estrinseca nella figura paterna, il legame padre-figlio sempre incombente, a tutte le età. Senza il familismo amorale del Kulturkampf nordista, il sociologismo di maniera. Non c’è neanche la mamma, altra invenzione nordista del Mediterraneo, seppure omologata da Corrado Alvaro. Il legame carnale è pedagogico più che di sangue, e si trasforma in un dover essere, la sostanza della cosa.
Salvatore Scibona, The End, Riverhead Books, pp.325, $ 16

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