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domenica 23 ottobre 2011

Il mondo com'è - 72

astolfo

Gheddafi - La sua fine ha, in prospettiva storica, segno duplice: mostra quanto l’Africa sia cambiata in quarant’anni, e allo stesso tempo quanto sia sempre campo di esercitazione di quello che allora si chiamava neo colonialismo. In sintesi: è come se il neo colonialismo si fosse dato un’apparenza diversa facendosi nobilitare dai fini.
Gli affreux sono gli stessi, che controllano il continente per conto di Parigi - e, dietro le quinte, vergognosa, come sempre, di Londra. Sia pure in veste di piloti di cacciabombardieri, inquadrati nelle forze armate regolari e autorizzati dall’Onu, invece che di killer in tuta mimetica e kalashnikoff. Anche la finalità vera non è cambiata. Ora si vuole proteggere la democrazia, o instaurarla, e non più combattere la sovversione. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: il controllo del continente. Anche le élites locali sono le stesse, seppure ora in forma ora di governi provvisori o di liberazione.
Non una novità integrale insomma. Tanto più se si riflette che gli Stati Uniti da tempo hanno abbandonato il bonapartismo nei paesi del Terzo Mondo, imponendo regimi “democratici”, comunque a scelta plurima. Per una ventina d’anni dopo il 1955 gli Usa hanno imposto in mezzo mondo una serie di regimi militari, anche sanguinosi. E quasi ovunque nelle loro sfere d’influenza: nel subcontinente asiatico, Pakistan soprattutto, Indonesia, Thailandia, nel Medio Oriente, a partire dall’Egitto e dall’Iraq, e in Sud America, con regimi repressivi molto vistosi anche in paesi avanzati quali il Brasile, il Cile, l’Argentina.
Gheddafi in un certo senso è stato l’ultimo dei reucci di cioccolata che hanno infestato presto l’Africa dopo l’indipendenza. Più capace. Più intraprendente, se si pensa al ruolo che è riuscito a ritagliarsi, malgrado l’estrema marginalità del paese che rappresentava, nella politica panaraba, in quella mediorientale, e nella sovversione islamica, prima di Khomeini e delle Intifada, dal Marocco alle Filippine. Soprattutto miglior gestore delle risorse minerarie del suo paese: la Libia è il paese arabo che, per quanto piccolo e provinciale, ha investito con più oculatezza le royalties del petrolio. Ma con una concezione della politica e dei suoi cerimoniali, soprattutto negli ultimi due-tre anni, che ne hanno visto precipitare il declino, che lo apparentano a Idi Amin, Bokassa e Mobutu, che peggio di tutti hanno impersonato l’impoliticità africana.
Anche il suo avvento, del resto, nel 1969, come quello di Amin nel 1971, fu patrocinato dalla Gran Bretagna. Mentre Mobutu e Bokassa, i prototipi, nel 1965 erano stati portati a potere dai mercenari francesi. Solo in pochi paesi in Africa i fautori delle indipendenze o dei movimenti di rinnovamento e liberazione riuscirono a governare, Nasser, Burghiba, Ben Bella e Bumedien, Kenyatta, Kaunda, Nyerere, Senghor, Houphouët-Boigny. Sostenuti dagli Usa o dall’Urss – e dall’Italia (Burghiba in Tunisia e i tre cattolici in Africa nera, Kaunda, Senghor, Houphouët-Boigny, soprattutto il primo). Non dall’“Europa” che oggi si celebra – la Costa d’Avorio di Houphouët-Boigny era quasi sviluppata, vent’anni fa, quella successiva francesizzata è un carnaio spaventoso, come il Burundi e, anche se si tace, buona parte dell’ex Zaire.

Globalizzazione – L’America c’è arrivata vent’anni prima, con le multinazionali. La delocalizzazione allora si fece a vantaggio dell’Europa, principalmente. A metà degli anni Ottanta, esauritasi la spinta delle Grandi Cinquecento di “Fortune”, dei grandi grupi in tegrati verticalmente e dei conglomerati, e con la contemporanea apertura della Cina delle Quattro Modernizzazioni di Deng, la globalizzazione divenne la parola d’ordine, estesa all’Asia e all’America Latina.
Era ed è il mantenimento del mondo sulla linea della crescita. A termine praticamente indefinito, aprendo il mercato, nel primo dopoguerra circoscritto a meno di un miliardo della popolazione mondiale, i 24 o 25 paesi membri dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi sviluppati, a 5-6 miliardi di produttori-consumatori. Era ed è anche, senza volerlo, il coronamento del terzomondismo, dell’esigenza di una ripartizione mondiale dei mercati.
Contro la globalizzazione si fanno valere riserve antimonopolistiche che in realtà sono limitate, e i cui effetti negativi sono di gran lunga soverchiati da quelli positivi. Anche la protezione sociale (dei minori, delle donne, dell’orario lavorativo) è più forte dove la globalizzazione più incide, così come i controlli di qualità, i regolamenti sanitari, la protezione dell’ambiente. Molte delle istanze dell’inafferrabile giustizia economica vengono realizzate dalla globalizzazione.

Imperialismo - È freddo. Anche dove è militante, come in Francia – benché residuale, non dichiarabile (non monetizzabile politicamente). Negli Usa di Obama è anche riluttante, controvoglia. Dopo la stagione del militantismo estremo, delle presidenze Clinton e Bush jr., che però è durata poco. Per il suo bilancio costoso e fallimentare, ovunque, anche in Serbia e Kossovo. Per la crisi economica che da quattro anni minaccia gli stessi Usa. E per la tristezza (solitudine) di questo presidente. Che nell’esercizio dei suoi stessi buoni (quasi sempre i migliori) argomenti sembra dire: “Abbiate pazienza, mi hanno messo qui, ma ancora per poco”. Ma così è sempre stato: l’imperialismo si vuole riluttante. Una guerra continua che dev’essere missione di civiltà. L’imperialismo è triste.
Il colonialismo era gaio: il colono aveva molti servi, anche molte mogli, statuto in tutto privilegiato, e immaginava di arricchirsi. L’imperialismo è in guerra costante, diplomatica e militare, nella quale non può perdere una sola battaglia - una sola sconfitta è decisiva. Nel mentre che deve esportare la civiltà: la democrazia, la legge, il buongoverno, il progresso economico e sociale. È effettivamente un fardello.
A Kipling, che lo disse, si continua a farne una colpa, mentre non ha fatto altro che metterne a nudo l’insensatezza. L’imperialismo è il fardello-problema della funzione pedagogica. La quale è innesto e incrocio di esperienze e di culture.

Palestina – Lo scrittore Dürrenmatt c’è arrivato trent’anni fa, in “Rapporti”: a ipotizzare che, se uno stato palestinese è indispensabile, non potrà però esistere se non “garantito” da Israele. La Palestina veniva da un’esperienza storica molto più occidentalizzata rispetto al resto del mondo arabo, quanto ai diritti civili, della famiglia, politici, e difficilmente avrebbe visto la luce a opera del mondo arabo-islamico. Come infatti (non) è avvenuto. Con resipiscenze tra gli stessi fautori di Hamas, il suo movimento islamista.
Le Intifada e i kamikaze hanno chiuso la prospettiva, che prima c’era, di uno Stato palestinese, e non ne hanno aperto un’altra: non ci sarà uno stato islamico in Palestina. È una delle “ironie” della storia: Israele, che è uno Stato confessionale, non lo consentirà. Su questo potendo contare sulla solidarietà europea. E sulla stessa albagia americana, pur così pronta ad accettare, quando non a sostenere, il radicalismo islamico: con Bush jr. prima e poi con Obama gli Usa hanno tentato d’imporre l’islam radicale anche in Palestina, ma dovendone poi riconoscere i limiti, l’inconsistenza politica.

astolfo@antiit.eu

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