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sabato 29 ottobre 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (106)

Giuseppe Leuzzi

Outing fascista di Andrea Camilleri – fino al 1943 naturalmente, come tanti, come tutti – nel ricordo-prefazione a “Il nome delle parole” di Guglielmo Petroni. Ma pieno di ammiccamenti, qui lo dico e qui lo nego, autorità, raccomandazioni, col piccolo name dropping di provincia. Il fascismo non è morto?
C’è parentela c’è tra il fascismo e il culto degli amici importanti che la Sicilia immortala?

Nel primo film di Checco Zalone, record d’incassi, “Cado dalle nuvole”, si balla il valzer con “Le rose del Sud” di Johann Strauss. Che è un pot-pourri dei motivetti più riusciti dell’operetta “Il fazzoletto di pizzo della regina”, di fattura ostica per il pur fertile compositore, non un particolare omaggio al Sud. Tuttavia se la prima edizione cartacea del valzer, nel 1880, appare anonima, con un fascio di rose e palme entro un fazzoletto di pizzo, la seconda ha le rose in copertina intrecciate lungo una veranda, e un vulcano sullo sfondo, che vorrebbe essere il Vesuvio. Con la dedica del musicista: “Nel più profondo rispetto a sua Maestà Umberto I, re d’Italia”. Come si conquista l’onore e il rispetto?

La troga di Rugarli, titolo del suo romanzo famoso, è calabrese – droga. Lo è anche l’allegro cinismo che libera quella storiaccia dell’Italia infame? L’allegro cinismo del Sud – di una parte del Sud - può essere la ricetta?
Rugarli, napoletano, naturalmente disprezza i calabresi. Ma – non lo sa? – ne ha mediato la strafottenza.

Il controllo del territorio
La giustizia è al primo capitolo di “Old Calabria”, il classico di Norman Douglas, “Musolino e la Legge”: “Il metodo è inteso a creare più che a reprimere il crimine”.
Si tratta del domicilio coatto. “È una di quelle cose che sarebbero incredibili, se non fossero effettivamente esistenti”, nota il viaggiatore a piedi futuro scrittore: “È una scuola, una scuola voluta dallo Stato, per la promozione della criminalità”.
Lo storico Schiavone dieci anni fa sintetizzava la giustizia al Sud come “la labilità del controllo più elementare del territorio”. Si può dargli ragione, sulla base dell’esperienza.
Il controllo del territorio è ostracizzare la popolazione, ma più quella da cui si è certi di non avere nulla da temere – quella che altrove viene chiamata società civile. In pratica, significa essere fermati spesso, quando si viaggia, dai CC per i documenti. Essere fermati dai CC significa un’accurata trascrizione dei dati, anche se ogni giorno sono gli stessi, e una multa quasi sicura, almeno un rimprovero. Se richiesti bonariamente perché, adducono gravemente “il controllo del territorio, è necessario”. Ma forse che ci sono meno patenti false, dopo questi controlli, o ragazzi alla guida senza patente? O si fanno più assicurazioni obbligatorie? Mentre basterebbe un programmino semplice, il software non è difficile da concepire e sicuramente esiste, per confrontare le targhe in circolazione con l’assicurazione Rca.
Ai ragazzi senza patente infliggono multe di tremila euro. Tremila. Roba da parlamentari megalomani, ladri incontinenti che non sanno il valore dei soldi. Il carabiniere, che guadagna mille e cinquecento euro al mese, se il li guadagna, dovrebbe sapere che per tremila euro conviene fare causa in tutti gli ordini e gradi, fino alla prescrizione, un avvocato costa tre-quattrocento euro. Una multa di trecento euro sarebbe più dissuasiva, anche di trenta, ma il Carabiniere si vuole terribilista: “Noi e loro”, la società gli è nemica, al Sud - solo al Sud s’illude il Carabiniere in questa sua mefistofelica istruzione.

Il Toro vuole un’altra storia
Il Toro, che al Sud sopravive nella toponomastica, in Calabria (Taureana, Metauria, Gioia Tauro, Taurianova, Turii…), in Sicilia e nel Salento, è di Creta. Ma si può vedere in molteplici riproduzioni anche in Spagna (Altamira) e nel Sud della Francia, dovunque i fenici sono stati prima dei greci. E nella corrida naturalmente, lo spettacolo della vita e la morte, la luce e l’ombra, il fazzoletto bianco e il sangue.
Il toro con le corna è simbolo di potenza, anche i santi e i profeti se ne adornano. La Svizzera nasce da questo punto di vista sacra: il capo degli Elvetici aveva nome tropaico, domotaurus, toro potente. Un filone del culto della Dea Madre s’intitola ad Artemide Tauropolos, la cretese Madonna del Toro. La Vergine associata al Toro è reminiscenza micenea, di origine minoico-cretese - la Vergine associata al Toro è reminiscenza micenea, di origine minoico-cretese: anche la Grande Madre Giunone era cretese. Una storia più antica della colonizzazione greca e della Magna Grecia, (quasi) tutta ancora da esplorare.
La simbologia del Toro l’Evola orientalista riporta al “Veda”: le quattro gambe o sostegni del Toro, le quattro età dell’uomo. Comune anche ai greci (Esiodo), all’Iran, al caldaismo, e all’ebraismo. Ma specialmente il Toro è il simbolo del dio fenicio Baal. Quando si riscriverà la storia greca, come già mezzo secolo fa richiedeva Arnaldo Momigliano, ci saranno sorprese – i Fenici non sono i soli che sono stati cancellati dalla storia europea: i Fenici potrebbero ben essere anche Micenei, o questi apparentati a quelli, magari per il trasporto via mare.
La Magna Grecia del resto viene prima della colonizzazione. Era nota e frequentata dai greci prima delle prime colonizzazioni, attorno al 700 a.C., a Siracusa, Napoli, Crotone, Taranto, Locri, storicamente databili e poi stabili. A opera dei micenei, mercanti, avventurieri, pirati, di cui molto resta ancora da sapere, ma quello che si sa, attesta l’archeologo britannico Rodney Castleden nel classico “I Micenei”, li connota di grande intraprendenza lungo l’asse centrale dell’Europa continentale, e di assimilazione pronta di tutte le culture con cui vennero a contatto, egizia, ittita, fenicia, siriaca, assira, babilonese, in particolare di quella minoico-cretese, dopo che ebbero invaso l’isola, nonché Cipro e Rodi, nella Tarda Età del Bronzo, attorno al 1.500 a.C. Numerosi resti documentano la loro presenza in quella che sarà la Magna Grecia: la diffusione della simbologia del Toro, la toponomastica, le mura ciclopiche, le tombe a pozzo e a piramide. In Calabria i recenti reperti archeologici di Trebisacce, Altomonte e San Demetrio Corone. Così pure in Sicilia (Taormina e altre numerose località) e nel Salento, la vecchia Calabria.
Nel Salento, a Roca Vecchia sotto il famoso san Foca, il martire giardiniere patrono dei marinai, si vede che i micenei erano in Italia settecento anni prima della prima colonia della storia greca, avendovi lasciato mura spesse di metri, e le loro imitazioni povere delle piramidi – a Otranto, la vecchia Idrusa, il signor De Donno ne ha alcune nel suo campo di Torre Pinta, dove fa trattoria.

Milano
Nel “rapporto” contro la Svizzera del 1985, il giallo “Giustizia”, Friedrich Dürrenmatt rivendica al suo paese l’antipolitica: “Abbiamo spoliticizzato la politica, in questo siamo pionieri” (“non ci aspettiamo più niente dalla politica, né miracolo né redenzione, al più qualche minuto miglioramento della rete stradale”). È da questa Lombardia d’oltreconfine che Milano ha mediato la semplice trovata per assoggettarsi l’Italia? E dal potere che dà la ricchezza.

È della Lombardia il record dei dipendenti pubblici: 415 mila a fine 2009, in aumento. Il Lazio, con Roma, arriva al secondo posto: 398 mila, sempre a fine 2009, in calo da qualche anno di 12-15 mila unità l’anno, tra pensionamenti e blocco del ricambio. La Lombardia conta 9,5 milioni di abitanti, contro i 5,5 del Lazio, ma non ha i ministeri. Che però vorrebbe.
Roma ha naturalmente il più alto numero di dipendenti comunali, 25 mila. Ma perché è la città più grande: con 2,7 milioni di abitanti è più del doppio di Milano, 1,3 milioni. In rapporto al numero degli abitanti è Milano che ha il più alto numero di impiegati, 1 ogni 77 contro 1 ogni 108 – superata peraltro da Torino (1\3), e dalle capitali del virtuismo ex comunista, Firenze (1\70) e Bologna (1\69), mentre Napoli e Palermo si classificano alla pari, un po’ meglio di Torino la prima, un po’ peggio di Bologna la seconda (Bologna, Firenze e Torino battono ogni record in fatto di dirigenti comunali, il doppio che a Roma).

Milano ha inventato i giornali femminili e ne è specialista, incontestata. È anche una città che si vuole dell’innovazione o del progresso. Anche se altre città avrebbero più titoli, Torino per la parte industriale e tecnica, Napoli e Palermo per quella leguleistica (burocratica), Firenze con l’usura per quella finanziaria. Ma la pretesa è oggi più che fondata, poiché non c’è altra Italia se non Milano. Se non per questo: il conformismo è parte della modernità? A Milano non si può scartare, le donne soprattutto, dagli obblighi del momento. Il sushi, per esempio, era d’obbligo l’altra estate, quest’estate era troppo freddo, poco fresco, dappertutto uguale. Anche la vacanza ai Caraibi – d’estate poi…

È d’obbligo nei settimanale femminili l’“integrazione” delle ragazze mussulmane. Tutte uniformemente mussulmane, che vengano dal Marocco oppure dall’Eritrea. E tutte interpellate per una sola questione, il velo. Quale che ne sia la foggia.
Il secondo tema d’obbligo dell’articolo d’obbligo sulle ragazze mussulmane integrate è come mai si dichiarino italiane e anzi piangano quando devono lasciare l’Italia, “questo nostro disastrato Paese”. A Milano dev’essere tutto uniforme? Come non c’è differenza tra il Marocco e il Bangladesh, così non c’è differenza tra l’Italia e la Tunisia. Come no. Si può avere una cultura fatta d’ignoranza? Si può.

Giampaolo Pansa, “Il revisionista”, p. 215, avendo lavorato a Milano tra il 1969 e il 1972, ricorda che “tirava un’aria pessima”. E spiega: “Un’aria che puzzava di faziosità spiritata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo”. Pansa la attribuisce alla colpevolezza che si era creata a carico del commissario Calabresi. Ma non è la prima volta che “l’aria è pessima” a Milano, si può anzi dire una specialità della città.

leuzzi@antiit.eu

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