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mercoledì 7 marzo 2012

Il Meridione nacque con la rivolta

Avrebbe potuto essere un’altra storia, questo lo sappiamo per certo, ma non ce lo vogliamo dire, forse per non dover rimediare. La storia di Molfese fa cinquant’anni, ed è l’opera non di uno storico, di un bibliotecario della Camera dei Deputati, ma resta l’unica vera storia. Che tra l’altro non si ripubblica – salvo per una ristampa anastatica alla macchia. Neppure per i centocinquant’anni la vicenda è stata indagata (gli archivi ricomposti, le fonti interrogate, i fatti ricostruiti), non con lo stesso solido impianto, seppure, come nel caso di Guerri (e Pino Aprile, e altri), con intento polemico. Benché la questione sia “centrale”, come usava dire. E Molfese abbia aperto promettenti orizzonti all’indagine. Anche nella storia canonica dell’unità, una porta poi non aperta: l’intervento dell’esercito sardo è deciso da Cavour quando l’impresa garibaldina è indebolita in Campania dal ribellismo contadino, e più forti sono le richieste di protezione a Torino da parte dei borghesi delle Due Sicilie.
Il segreto del brigantaggio è semplice: al Sud la rivoluzione nazionale si sarebbe voluta sociale. Fu invece di polizia, con un uso sproporzionato dei mezzi e dei metodi repressivi. Dieci anni di occupazione militare e di terrore, nei quali al Sud non si fece praticamente nient’altro. E questi sono gli anni di formazione dell’unità d’Italia. Napoli è presto popolata da “ufficiali, sottufficiali e militari borbonici congedati, privi di occupazione e di paga, ostili”. Ci sono rivolte nelle zone liberate da Garibaldi attorno a Napoli già a fine 1860. “Contemporaneamente si inasprisce il carovita”. Mentre la Guardia Nazionale viene costituita al Sud con lentezza, e con poche armi, vecchie, “evidentemente con l’intento di piegare le resistenze democratiche e autonomiste, e con la diffidenza” per le popolazioni meridionali. All’inizio del 1861 il brigantaggio era già attivo in tutti gli Abruzzi, dal confine con lo Stato pontificio fino al Molise, comprese le Mainarde, nonché in Basilicata a opera di Carmine Donatelli (“Crocco”), che in estate si era battuto con le formazioni liberali, nonché in Calabria e in Puglia “nelle sue forme diffuse, endemiche, di ladroneccio e di ricatto, di vendette personali e di «vandalismo agrario»”. Vi confluivano “ex soldati borbonici congedati o «sbandati», disertori, evasi dalle carceri, elementi compromessi nelle «reazioni» dell’autunno, contadini e montanari ansiosi di libertà, di bottino e di vendetta”.
Il panorama è quello, non c’è indulgenza. Ma il fatto fu cruento, cruentissimo. E marchiò l’Italia a venire, come una sorta di nascita di fatto. Il capitolo secondo di Molfese è intitolato “La rivolta contadine del 1861”. Gli altri capitoli sono “Lo stato d’assedio”, “La legislazione eccezionale”, “Attacco e liquidazione”. Parlano da sole anche le cospicue appendici. La prima è l’indice dell’archivio della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB) del 1863, rimasto a lungo segreto e poi negletto, che spesso è solo un elenco, una buona metà dei titoli non ha più testo. La seconda riporta le cifre dei morti e dei reati denunciati, con l’elenco delle bande – un’infinità.
La copertina della vecchia edizione Feltrinelli, 1964, dice: “Il brigantaggio che flagellò il Mezzogiorno continentale, dal momento stesso dell’unificazione fin verso il 1870, costituisce una delle pagine più fosche e meno note della storia d’Italia”. La storia è ferma ancora là. Queste le tracce aperte da Molfese, poi inesplorate. “Gli spontanei movimenti contadini”, in Sicilia, Calabria, Basilicata, nel Salernitano, in Irpinia e nel Molise. Lo scioglimento dell’esercito borbonico e di quello garibaldino. La “sorda e, talvolta, concreta lotta per la conquista e la difesa degli impieghi pubblici e delle posizioni di potere locali”. Il revanscismo dell’ex sovrano borbonico – e prima di lui, con perspicacia e buoni risultati, al confine con l’ascolano e più in là, dal papa.
Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità

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