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martedì 6 marzo 2012

Nella “Certosa” spettri borghesi

Curioso effetto d’insostenibilità di questo che ancora trent’anni fa Calvino diceva “il più bel romanzo del mondo”. Settecentesco, a ruota libera cioè, di intrighi, sorprese, tesi. Ma come un “Candide” stirato, e tirato via, per ottocento pagine, complicato nelle minuzie, da fogliettone a puntate. Non più satirico quindi, prolisso e inverosimile per lo più. Lasciando per dopo – al retrogusto? – il sapore delle invenzioni, il romanzesco.
Il primo capitolo è un proclama napoleonico, storico-ideologico. Nel secondo c’è la celebrata lacrimevole iniziazione di Fabrizio alla guerra. Si finisce con la storia ridicola, neanche melodrammatica, del voto di Clelia, di non guardare più Fabrizio, col quale fa l’amore, e della morte del loro figlietto per averlo intravisto alla luce di una candela… Nel mezzo un’improbabile carriera ecclesiastica del giovane giacobino. E una Clelia di cui è impossibile innamorarsi, nell’immagine, le parole, il rapporto col padre. In chiave romantica, di superstizioni, amori impossibili e segrete dedizioni, ma fuori quadro.
È un romanzo a metà strada anche col futuro romanzo borghese. Clelia ne è un’anticipazione, un’eroina spenta, la Bovary ragazza. Sanseverina è l’ancien régime, ed è molto meglio - anche Mosca rispetto allo scioperato Fabrizio: un romanzo di spettri senza di lei.
Stendhal, La Certosa di Parma

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