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domenica 29 aprile 2012

Il mondo com'è - 92

astolfo

Facebook – Sembra aver superato Google in fatto di democrazia. Un modo senza altra realtà che quella degli amici, dei conoscenti, dei curiosi: un mondo di eguali, liberamente parlanti, senza gerarchie. Ma allora della democrazia nel suo aspetto deteriore, di un egualitarismo delle conoscenze sempre più respinto nel vago e l’indefinito, e cioè verso l’insignificanza. Una sottile opera, mefistofelica, di demolizione morale, di esclusione politica. Una sorta di privatizzazione radicale, in nuce, all’opposto del “privato è politico” che chiuse il Sessantotto. I saperi restando inderogabili: le leggi, le tecniche, la storia stessa (cronologia, anagrafe).
È anche, come tutti i social network, una sputacchiera, dove uno butta i suoi umori senza pudore. Una “libertà” di cui si fa vanto.

Internet – È l’informazione – il Grande Fratello di Orwell. Questo è stato detto. È la mobilitazione totale. Jünger la temeva in guerra e nella lotta politica. È venuta invece col “futuro”, di fronte al quale tutti sono indifesi, con lo sviluppo ineluttabile e auspicabile della tecnica, via Web 2.0. “Lo spiccato livello di interazione tra il sito web e l’utente (blog, forum, chat, wiki, flickr, youtube,facebook, myspace, twitter, google+, linkedin, wordpress, foursquare, ecc.)”, di cui Wikipedia fa merito al Web 2.0, “ottenute tipicamente attraverso opportune tecniche di programmazione Web afferenti al paradigma del Web dinamico in contrapposizione al cosiddetto Web statico o Web 1.0”, in realtà sono forme di cattura dell’utente. E in qualche misura di assoggettamento.
Lo stesso Jünger ne aveva intravisto il potenziale trattando, al § 74 de “L’Operaio”, della “Opinione pubblica in epoca plebiscitaria”:
“La ricettività intellettuale della categoria passiva che costituisce il vero pubblico dei lettori tende con una grande rapidità verso una forma che esclude senza speranza ogni influenza dell’intelligenza liberale. Tutte le questioni culturali, psicologiche e sociali annoiano incredibilmente questa categoria, che è altrettanto incapace di percepire il raffinamento dei mezzi d’espressione. L’intelligenza di questa categoria, uscita in bella unità da tutti i ceti della vecchia società e che prolifera ogni giorno di più, ha un bell’impadronirsi dei più sottili dettagli tecnici con molta penetrazione e sicurezza, non resta meno indifferente a ogni genere di conversazione che renda la vita preziosa all’individuo. È una modifica dell’intelligenza che corrisponde a un paesaggio differente, in seno al quale l’ideale di cultura borghese non sa ormai che accrescere la sofferenza in proporzioni inaudite. Ci sarebbe quasi da provare talvolta pietà per queste intelligenze che hanno sempre più difficoltà a produrre esperienze uniche, se si pensa che, nel migliore dei casi, una tale performance sarebbe percepita come una specie di assolo di sassofono sentimentale.
“Tutti gli elementi di questa situazione emergono ancora più chiaramente nei mezzi d’informazione tipici che bisognerà considerare i mezzi del XXmo secolo, la radio e il cinema. Non c’è niente di più divertente dei tentativi di certi burattini di sottomettere ai criteri di un concetto liberale della cultura dei mezzi così univoci, concreti, e destinati a compiti radicalmente diversi – questi personaggi che si prendono per critici della cultura e non sono che i garzoni parrucchieri della civiltà. Un colpo d’occhio superficiale su questi mezzi basta già a mostrare che non può trattarsi di organi della libertà d’opinione in senso tradizionale. Tutto ciò che è semplice opinione si rivela qui al contrario inessenziale al massimo. Questi mezzi dunque sono così inadatti a giocare un ruolo come strumenti di un partito come lo sono a conferire risonanza all’individuo. L’ambiente in cui l’individuo può agire è distrutto dalla semplice esistenza della voce artificiale e del fermo immagine prodotto attraverso la luce”.
È “una volontà di un’altra natura” che “comincia a crearsi”. Da conservatore, ma non irrealista, Jünger intravedeva nel 1933 il fondo della contemporaneità: “Ci si è abituati ad accogliere ogni notizia prevedendo già la smentita che seguirà. Siamo giunti a una tale inflazione della libertà d’opinione che l’opinione è svalutata prima ancora che ci sia il tempo di pubblicarla”. In altri termini, siamo in uno “spazio totale”. In cui “non c’è centro né residenza, che sia la residenza del principe o dell’opinione pubblica. Così come ha perduto ogni importanza la differenza tra la città e la campagna. Meglio, ogni punto possiede potenzialmente il significo di un centro. Questo è qualcosa di angosciante, che richiama il lampeggiare muto delle luci d’allarme quando un settore qualsiasi di questo spazio – che sia un’area minacciata, un grande processo, un evento sportivo, una catastrofe naturale o la cabina di un aereo – diventa d’improvviso il centro della percezione e, insieme, dell’azione, e quando si forma attorno ad esso un cerchio denso di occhi e orecchie artificiali”.
Di questa aggressione sottile Jünger aveva allora un solo esempio, la guerra in Manciuria nel 1932 che la radio trasmetteva quasi in diretta. Ma ne aveva capito il senso: “Quando si guardano le attualità politiche che fanno parte dei compiti d’informazione del cinema, è chiaro che comincia a svilupparsi un altro genere di comprensione, un altro genere di lettura. Il varo di una nave, un dramma in miniera,una corsa automobilistica, una festa di bambini, l’impatto delle granate che partono e cadono su qualche punto della terra devastandolo, l’alternanza di voci entusiaste, gioiose, eccitate, disperate, tutto questo è captato e restituito da un mezzo di precisione impalcabile, e presenta un condensato che dà a vedere l’insieme dei rapporti umani sotto una luce diversa”. L’opinione pubblica è un’altra, “interamente diversa”. Essa ora “rende giustamente tabù i campi decisivi, in modo che la libera opinione non possa prenderli nel suo campo visivo”. Senza difficoltà: “Non disponiamo per osservare che di una sola finestra, di un unico dettaglio”. Il giudizio nasce formato.

Italia – Venticinque milioni di italiani “iscritti” a Facebook. È un record mondiale? È possibile, quasi la metà della popolazione. Dunque, non c’è il web divide, sappiamo tutti come fare quando ci interessa. Non, comunque, dove c’è da curiosare e chiacchierare: la socialità è indivisibile dall’italianità. Facebook ripete il telefonino, di cui sarebbero attivi più contratti che la popolazione.

Un programma scolastico dell’Opera di Roma vede l’adesione entusiasta di circa cinquemila bambini delle prime classi elementari, e dei (delle) loro insegnanti, cento classi, per la concertazione di opere non facili, “Don Giovanni” e “Il flauto magico” dopo “Lucia di Lemermoor”. L’Opera mette a disposizione un sussidio audiovisivo (libro più cd) e la collaborazione saltuaria di un cantante professionale. Le scuole provvedono a lunghe ore di concertazione, per classi singole e in gruppo. Su arie e cori che i bambini imparano diligenti e con entusiasmo. Anche il canto è indivisibile dall’italianità.

Scrivendo dell’Italia sulla “New York Review of Books” l’8 marzo, Tim Parks dice le solite cose: che in Italia conta la famiglia, che la nozione di bene comune è estranea, che è un paese per “iniziati” (raccomandati), e che i governi sono instabili e compositi. Due cose vere e due no. Ma dice anche di più: “Facendo ricerche per scrivere “Medici Money” (2006), un libro sulla banca Medici nel 15mo secolo, ho scoperto che molti schemi della società italiana contemporanea erano già presenti nella Firenze Repubblicana: governi brevi e divisi, estrema ambiguità sul centro effettivo del potere, l’ossessione dell’influenza condivisa tra differenti corporazioni e località, estrema difficoltà nella raccolta delle tasse, e così via. Più tardi, traducendo Machiavelli, mi sono imbattuto nel principio che l’unità in Italia si può realizzare solo quando il paese nell’insieme fronteggia una minaccia seria dal’esterno”.
Non è propriamente così, ma Parks e la rivista sembrano ritenere le “differenze” una colpa. L’articolo di Parks rientra, scrive la rivista, in una serie sul “fato della democrazia” in varie parti del mondo. Col sottinteso, che il titolo rende esplicito, “Can Italy change?”, che la democrazia è malfatata in Italia, a meno che non “cambi”. Non si dice in che senso, ma s’intende naturalmente nel senso dell’Inghilterra o degli Stati Uniti (e ancora qui, ci sarebbe da chiedere: in che senso?). È la vecchia-nuova pubblicistica imperiale.

Privato – Si è perduto al mercato – si vorrebbe dire che si è venduto, ma ha poco valore: denominato privacy, è un bene improprio, più del genere controlli, regolato da Autorità apposite.
Il Grande Fratello di Orwell è una trasmissione tv ma anche il paradigma della vita di ognuno, come nel film “Truman Show”. Ottima sintesi ne fa Battista, su “Sette” del 19 aprile: “Tutto ciò che riguarda l’esistenza di ciascuno è registrato, intercettato, catalogato, potenzialmente usato contro chiunque. Tessere elettroniche, carte di credito, telepass esercitano una sorveglianza continua e assillante su cittadini che oramai sono alla totale mercé di un sistema poliziesco a cui nulla sfugge”. C’erano una volta i controlli di polizia (“documenta!”), c’è ora un controllo pervasivo.

astolfo@antiit.eu

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