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martedì 31 luglio 2012

Letture - 104

letterautore

Celtismo – Nella trasposizione cinematografica “Il signore degli anelli” è tutto Bibbia.
Sono i miti e riti celtici del “celtismo” anch’essi biblici? In Tolkien la Bibbia non c’è, in nessun modo, ma ancora non c’era il celtismo – e lui non mitizzava il ceppo celtico dei suoi bonari sassoni.

Dante – È un ulisside, un ricercatore sperimentale. Maria Corti, studiosa di Dante (il suo ultimo libro, uscito postumo nel 2002, è “Scritti su Cavalcanti e Dante”, il penultimo è “Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante”, 1993) era anche appassionata di Ulisse, in tutti gli aspetti del personaggio, imbroglione o navigatore della verità, in tutte le proprie capacità espressive, di filologa e di romanziera. Nel saggio “La «favola» di Ulisse: invenzione dantesca?” (in “Percorsi dell’invenzione”, in altri scritti, e in una lunga intervista a Rai Educational (4 aprile 2000), si compiace molto di aver saputo collegare il naufragio di Ulisse al canto XXVI dell’ “Inferno” , che ritiene non un’invenzione di Dante ma un fatto provato, e la torre di Babele che lo stesso Dante critica – ma ne è affascinato - nel “De Vulgari Eloquentia”. È il fascino, argomenta la studiosa, che esercitavano gli aristotelici radicali o averroisti, per ciò stesso in odore di eresia, quali Boezio di Dacia e Gentile da Cingoli, analisti logici dei “modi di significare”, e cioè della creatività infinita del linguaggio.
Un accostamento che così spiega nell’intervista: “Questo naufragio è anche servito a Dante perché ricalca un po’ la metafora del naufragio descritto da sant’Agostino, che è il naufragio dei filosofi che non cercano la verità, cercano degli errori e naufragano, prima di raggiungere il porto della verità. Ecco, noi sappiamo che Ulisse rappresenta qui quei filosofi…, i filosofi dell’aristotelismo radicale, che Dante usa. Non solo, per un certo periodo, ha aderito a loro, ma poi avendoli abbandonati, ha fatto naufragare il personaggio che li rappresenta. Ulisse nell’inferno usa un’espressione di Boezio di Dacia: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”. É quello che Ulisse disse ai suoi compagni di viaggio, che è una frase scritta nel “De Summo Bono” di Boezio di Dacia”.

Giallo - È solo in Italia ormai che i gialli si svolgono attorno a un detective, un commissario, un giornalista, uno “fissato” (il nonno, la pensionata, la casalinga) e la giustizia trionfa. Il paese dove invece non c’è giustizia, se non per caso. È solo in Italia che c’è il giallo, a enigma (soluzione), mentre altrove c’è, da quasi un secolo ormai, il noir, tutti assassini.

Ironia – Ha l’irritante cadenza del falsetto. Fra ironici si sta in guardia, non c’è da fidarsi, neppure di se stessi. Anche se il lettore non lo è, l’ironico sta sempre in guardia, un lettore ironico capiterà.

È una narrazione il cui oggetto è la narrazione – non inevitabile.

Marker, Chris – Si può serre stati autori di cinema-cinema, artisti dell’immagine, il movimento, le luci, e non essere stati. Coautori di Alain Resnais, ispiratori di Lyng, Gilliam, e altri autori di successo. Perché è il mercato che fa il reale, nel cinema e non solo. È così che Marker muore ignoto, per essersi dedicato al cinema da uomo di cinema.
Era ancora pieno di progetti e entusiasmo al festival del cinema di Teheran. Ce n’è stato uno, nel 1975, voluto dallo scià per progettare film che portassero il paese agli onori degli Oscar. Con partecipazione affollata, senza scandalo politico. Con i goscisti del mondo intero, un invito dello scià era irresistibile. Con Orson Welles, che progettava una scuola di cinema, che lo scià av rebbe potuto finanziare. Ospite d’onore Moravia, che avrebbe dovuto portare alle produzioni iraniane i Fellini, con le Mangano, le Sophie Loren e i Mastroianni. Hans-Jürgen Syberberg ci presentava la conclusione della trilogia sulla Germania privata, la proiezione delle private fantasie dei tedeschi, con “Hitler”, che sancisce il nazismo quale spettacolo – non per idioti: la trilogia è lunga una diecina d’ore, più di Wagner, celebrazione che Syberberg anticipava con un documentario su Winifred Wagner. Chris Marker si esaltava al “Trionfo della libertà”, alla scena in cui Leni Riefenstahl fa vedere il punto di vista del cinema: la torre con rotaia, da cui la cinepresa inerpicandosi darà le panoramiche. Magnifica prova, diceva, di straniamento, lo smontaggio del meccanismo della narrazione che sarebbe la migliore narrazione.
Marker era Christian François Bouche-Villeneuve, nobiluomo impegnato. Con Resnais aveva aperto alla negritudine il cinema, “Anche le statue muoiono”, altro filone di novità. Un rivoluzionario. Rivoluzionaria in un senso l’arte del cinema lo è, come Benjamin ha scoperto: è utopica. Specie all’incontro con la forza della città, con la velocità. Ma ottimo cinema si fa pure col tempo lento agreste, perfino col tempo non tempo. Che Marker poteva trovare in Persia anche al tempo dello scià modernizzatore – ora è più rara, nel regime tradizionalistico: la poesia che sa far parlare il tempo, la vecchia e la nuova, sa far parlare la pausa, tra il vino e i piaceri.

Pound – “Pound, che biograficamente era fascista, scrisse un tipo di poesia che Hitler, se l’avese conosciuta, non avrebbe potuto fare a meno di bruciare”, U.Eco, prefazione alla riedizione de “Il costume di casa”, luglio 2012.

Traduzione – Si esercita soprattutto su Joyce, la parte di Joyce intraducibile, l’“Ulisse” e “Finnegan’s Wake”. La traduzione è una sfida? Di “Ulisse” Celati prepara ora la quarta traduzione del dopoguerra, dopo quella ancora canonica di De Angelis (Mondadori), di Bona Flecchia nel 1995, alla scadenza dei diritti d’autore (Shakespeare and Company), e di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi l’anno scorso (Newon Compton). Celati scegli un criterio che vuole essere filologico e non lo è: “Joyce non riesce a pensare una frase che non sia un fatto musicale”, dice. E su questa traccia lavora: la frase deve “suonare” bene.
Una chiave “filologica” che apre tutte le porte – non c’è ormai scrittore o poeta che non si voglia musicale. Ma congruente. La musica è intraducibile. Tuttavia, la musica delle parole no: la parola è traducibile anche quando è musicale, musicalmente significante.
La questione è peraltro niente al confronto con la collazione del “vero” Joyce – il Joyce dell’“Ulisse”. Una questione di pelo così caprino che è perfino puzzolente.

letterautore@antiit.eu

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