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giovedì 23 agosto 2012

Letture - 107

letterautore

Confessione – Il genere nasce con Rousseau. “Il primo che in maniera organica indagò l’intimità, e in certo senso la teorizzò fu Jean-Jacques Rousseau”, Hannah Arendt, “Vita Activa”. Al punto da meritarsi a lungo, “unico fra i grandi autori”, di essere “citato con il solo nome”.

Doppio - Jean Paul si sarebbe divertito un mucchio con Facebook, il mondo dei doppi, oggi avatar, partenogenetico a piacimento, senza danno per nessuno – non che si veda. Si può dirne lo scrittore, con due secoli di anticipo. Jean Paul non era ossessionato dal “doppio”, che non lo inquietava come invece Poe o Paul Auster. Era una delle pieghe “umoristiche” attraverso le quali penetrava nella vita (“c’è un umorismo che si accompagna al pathos”, De Quincey diceva di Jean Pauk). Specie le parole “doppie”, le parole composte, che lo divertivano per la capacità anagrammatica e combinatoria.

“Gattopardo” – Ma è il romanzo della fede, religiosa. Con disdegno delle cose terrene: uno sguardo dall'aldilà gettato in vita. Una professione di fede non bellicosa (trionfante), e tuttavia sempre dotata di superiore serenità.
“Il Gattopardo” comincia col rosario e finisce col santo vescovo a disagio tra le reliquie false. Nel mezzo non un solo accenno derisorio di Tomasi, che pure ne spende tanti, sui preti o la fede, ancorché in forme superstiziose. Anche la mania delle stelle (dei cugini Piccolo) Tomasi riconduce a ortodossia religiosa. Padre Pirrone, il prete che accompagna la narrazione, è persona degna in ogni circostanza.
Il “Gattopardo”, affogato nel “cambi tutto perché non cambi nulla”, è romanzo poliedrico, e questo della fede è un aspetto fra i principali – quanto lontana, la sua umanità, da quella legnosa di Sciascia, pure pensosa di buoni propositi. È il solo caso, si può dire, di romanzo religioso del Novecento. Per le pratiche di devozione, sempre misurate e rispettate, e per il senso cristiano della vita.

Stupidità – Nell’“Elogio della stupidità” Jean Paul inscena la stupidità stessa che, parlandosi da sola, tesse l’elogio della stupidità: il colmo.
Jean Paul la trova, quasi un contemporaneo, tra i teologi (oggi diremmo i moralisti), i filosofi, i poeti, gli scrittori, e i medici naturalmente, i cortigiani, i bellimbusti, e molte belle donne. L’“Elogio” di Jean Paul è uno specchio del moderno modo di essere di quelli che si chiameranno gli intellettuali, anteriore ma anche successivo a quelli di Baudelare e di Flaubert, dei tic nei quali si risolve spesso il nostro pensiero profondo. È un catalogo più che un libello: la critica va all’ipocrisia, la superficialità, lo snobismo, il carrierismo, l’arroganza, la sciatteria.

È tema arduo. Non si tratta infatti di far ridere con aneddoti piccanti o buffi su quello che non vorremmo essere (Bertoldo, Giufà, Andreuccio, Calandrino), ma di far emergere quello che siamo e non vorremmo essere. La stupidità è tuttavia molto frequentata in letteratura, i repertori ne traboccano. Ultimamente con Savinio, e con Umberto Eco, come tema generale e non per aforsimi. Nonché dallo storico Carlo Maria Cipolla, in “Allegro, ma non troppo” e altri scritti. Con sufficienza. Contestati, ma debolmente, da Fruttero e Lucentini, che ci hanno scritto sopra quasi un migliaio di pagine – ora riedite negli Oscar.
Moltissimi, nell’antichità sentenziosa e dopo, bollarono risata e stupidità insieme: Menandro, Isocrate e Catullo. I più la stupidità da sola: il “Siracide”, 21, 20, il “Libro dei Consigli” della “Bibbia” greca (poi chiamato anche “Ecclesiastico”), l’“Ecclesiaste” naturalmente, “Infinito è il numero degli stupidi” (ma l’“Ecclesiaste” di san Girolamo, l’originale e la versione dei Settanta direbbero altro: “Ciò che manca non si può contare”), Cicerone, non poteva mancare, il “Canzoniere eddico”, i proverbi popolari, e perfino Oscar Wilde: “Non c’è altro peccato che la stupidità”. Ma Wilde amava le battute: il suo “Marito ideale” professa infatti “una grande ammirazione per la stupidità”. Ci vuole poco del resto, basta arrabbiarsi. Come il giovane Baudelaire e il borghese insofferente Flaubert.
Sul fronte opposto Orazio. Nel quarto carme trova che “è piacevole, al momento opportuno, essere stupidi”. Il placido Cassiodoro consiglia: “La stupidità al momento opportuno è la più grande saggezza”. Alexander Pope, “Essay on Criticism”, pure ci spera: “Se la stupidità ci ha messi in questo casino, perché non ce ne tira fuori?” E papa Woytiła: “La stupidità è anch’essa un dono di Dio, ma non bisogna farne cattivo uso”.
A Pope si deve anche: “Il colto è contento di esplorare la natura; lo scemo è contento di non saperne di più”. Ma ne ha molte altre in canna, avendo celebrato la dea Dullness, che è molto Stupidità, nei vari libri della “Dunciad”, lo Scemenzario.

La stupidità è specialmente fruttuosa per coloro che l’humour rode. In particolare, da Rabelais a Longanesi, per il dato quantitativo. Bisogna ricordarsi, diceva Rabelais, che “al mondo ci sono molti più coglioni che uomini”. E che, aggiunge Longanesi, “due stupidi sono due stupidi, diecimila stupidi sono una forza storica”. La storia della democrazia, si può aggiungere, lo dimostra.

Si può anche individuare un’arte della stupidità. Nel senso di Cassiodoro oppure in senso inverso. Il Dottor Johnson notava di un tale che era troppo stupido per essere vero, “dev’essergli costato molta fatica, un tale eccesso di stupidità non esiste in natura”. E il superbamente intelligente von Hofmannstahl afferma: “La stupidità più pericolosa è un’acuta intelligenza”.

letterautore@antiit.eu

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