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lunedì 13 agosto 2012

Secondi pensieri - 111

zeulig


Dio – È deresponsabilizzante – può esserlo. Per questo se ne parla tanto.
Per questo la Bibbia lo vuole collerico, per evitargli questa brutta fine?

Ironia – Thomas Mann è uno che quando ha ragione si arroga “un diritto d’infamia” intellettuale: “Odio la politica e la fede nella politica, perché essa fa l’uomo borioso, dottrinario, testardo, disumano”. Benché sappia che “la impoliticità è anch’essa politica”. È che “l’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”. Detto ironicamente?
L’ironia sempre confluisce nel paradosso di Epimenide il cretese – quello per il quale tutti i cretesi sono bugiardi.

Esprime un bisogno di autenticità, ma disperante. O già cinico – un’impossibilità dell’autenticità.

Masochista – È il peggior sadico. Impermeabile, abbatte ogni difesa. In tutte le sue forme: ipocondria, misantropia, rivalsa (razzismo, classismo).

Morte – A distanza di sette mesi dal naufragio della “Concordia” si parla di 30 morti e due dispersi. È una distinzione “giuridica”, per le assicurazioni e lo stato civile, che però l’informazione usa come scongiuro. La morte è il tema principe dell’esorcismo.

Musica – “Il linguaggio sta solo in noi, come i teoremi e le sinfonie”. Così è per il neuroscienziato linguista Andrea Moro, “Parlo, dunque sono”. Ennio Morricone invece tenta di mettersi in sintonia con la “musica dell’universo”, sul presupposto non innocuo che “tutta la musica è già scritta in natura”. Ha ragione il musicista, ma in quanto il linguaggio, e la musica è un linguaggio, non può essere che conoscenza (scoperta) e non creazione – non nel senso radicale della parola. “Le costellazioni, le sinfonie ci sono solo perché ci siamo noi a guardare e ascoltare”, conviene lo stesso Moro: “Noi siamo parte del dato”. Noi spettatori e ascoltatori.

Pensare – Troppo è poco. Il pensiero vuole prudenza – ci si diletta a pensare, direbbe Gicciardini, “più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità”.

Storia - Si potrebbe scrivere la storia, rileva Schumpeter, “in termini di occasioni perdute”. Il tradimento, si sa, è la sola azione umana che modifica il passato, per il tradito e i pettegoli. “I fatti della storia”, rileva Schopenhauer, “sono mere configurazioni del mondo apparente, senz’altra realtà se non quella che deriva loro dalle biografie individuali… Cercare un’interpretazione di quei fatti è come cercare nelle nuvole gruppi di animali o persone. Ciò che la storia narra non è altro che il lungo, pesante e intricato sogno dell’umanità. Non esiste un sistema della storia, come ve n’è uno delle scienze, ma solo un’interminabile enumerazione di fatti particolari” – no, un sistema di equazioni a ogni evento a più variabili. Anche per De Quincey: interpretare la storia è non meno arbitrario che vedere figure nelle nuvole. Ma la varietà delle figure lo appaga: la storia è inesauribile, la possibilità di combinare i fatti è un numero infinito di fatti.
Non così per il catastrofico Spengler: “La storia non ha a che fare con ciò che è irripetibile, ma con ciò che, nell’irripetibile, ha carattere generale”. La storia non passa. E per il poeta Yeats: “La storia è la grande memoria, che si eredita e si accresce”. Che De Quincey aveva già spiegato: “La memoria è perfetta, il ricordo ripesca ogni particolare”. Lo stesso che Novalis: “La storia produce se stessa”. È maschio e femmina. Al punto che, per alcuni, la storia è inevitabile, fatale, “what’s past is prologue”, Shakespeare direbbe. A volte si cancella. Altre no: “La storia è pure persistenza”, spiega Schopenhauer, e “non può essere, come la filosofastreria hegeliana vuole, ciò che sempre diviene e mai è”. Purtroppo non lo è la storia delle catastrofi per esempio, dalle quali non ci si salva. È ripetizione dunque, poiché l’uomo va per tentativi, imitazioni, innesti. Ma fino a un certo punto. Che il messianico Benjamin intuisce: “La storia ignora il cattivo infinito che si trova nell’immagine di due guerrieri eternamente in lotta”. Non ignora, sdegna. La storia raccoglie tutto, come una vecchia casa, gli oggetti di anni, e la polvere, i fantasmi, i segreti, animati dai padri e ogni altro spirito di passaggio. Per arrivare a Solov’ëv: “Nella storia del mondo ci sono eventi misteriosi, ma non insensati”. O tornare a Spengler, per il quale la storia è ciclica, c’è una morfologia della storia delle culture. È così che la storia è contemporanea, alla Croce, che nella storia vede “la liberazione della storia”, come un baule che vuol’essere aperto.

O la liberazione è dalla storia: la facciamo, cioè la scriviamo, e l’accantoniamo? Al modo del medievista Sapori: “La storia è il magazzino degli stracci, lo storico il cenciarolo”. È il paretiano “cimitero di aristocrazie”?

Molto di ciò che passa per storia è mito, fantasia. Ma “l’indifferenza”, nota Gramsci, “è la molla più forte della storia”. Che non conosce le origini di nessun popolo. E il perché Landolfi sa: “Il ricordo è un compromesso: gli uomini si difendono”. Le genealogie incluse, la continuità del sangue, che il ricordo nutre. Anche se Esiodo le dice catene di cause e non seguiti di fatti: le fonti, scoprì Burckhardt, sono inesauribili.

Non c’è storia necessaria, se la storia fosse eterna non ci sarebbe: è politica, il pas-sato è preludio al presente. L’unica affidabile rivela, con Tucidide, “aspetti della natura umana”. Anche involontari: “La storia è un lungo delitto perpetrato da innocenti”, ragiona Camus. Con Leopardi: “La storia è una serie di delitti e meritate infelicità”. E può darsi, com’egli vuole, che “non tutto l’uomo coincide con la storia”. Ma “die Weltgeschichte ist das Weltgericht”, pure Hegel ha ragione: la storia è il giudizio universale.
Il pensiero stesso è storico, argomenta Arendt: “Né il filosofo, il pensatore retrospettivo di Hegel, né il contenuto del suo pensiero, l’Assoluto hegeliano, si pongono fuori della storia o rivelano qualcosa che la trascende”. È uno specchio, che riflette chi guarda. E Chabod: “L’unico pensabile vero non si può ottenere se non attraverso le forme individuali e concrete della storia”. Schopenhauer conviene, pur non credendoci: “La storia è tanto più interessante quanto più è particolare: dà allora meno affidamento e s’avvicina al romanzo” – il precedente che dà ragione per una volta a Freud, dove dichiara i romanzi “i veri maestri”. È così che il romanzo è la storia, e pure il pensiero, della natura inclusa, la quale è in larga misura umana, si sa che le storie vere sono romanzate.

zeulig@antiit.eu

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