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sabato 18 agosto 2012

Il mondo com'è - 106

astolfo

Egitto - Il presidente Morsi che silura il generale Tantawi, custode della tradizione nasseriana, per metterci Sisi, il generale che ordinò di far passate il test di verginità alle donne se manifestavano in piazza, che rivoluzione è, che democrazia? Perché è stato votato? Da chi, come?
Gli Stati Uniti vogliono che si instauri il voto libero come fondamento della democrazia – con eccezioni, per esempio in Turchia, ma all’epoca della guerra fredda. È giusto, non c’è democrazia senza voto libero. Ma il voto libero non sempre è prodromo di democrazia: in molti paesi islamici è la via a regimi islamici, non liberi, e ultimamente a divisioni radicali tra diverse confessioni islamiche.

Seguirà l’Egitto la traccia dell’Algeria, che si oppose all’islamismo e lo ha riportato alla cornice costituzionale, con la violenza? No, l’Egitto non è militante, è un popolo di contadini e non di nomadi e corsari – Algeri era anche, è, un dipartimento francese d’oltremare. No, finirà come l’Iran con Khomeini. Messo in trono dall’Occidente come stabilizzatore democratico, che l’Iran ha portato alla povertà e all’odio del mondo. A partire dalla minoranza cristiana, che in Egitto è il 18-20 per cento della popolazione.

Europa – È una legnosa burocrazia. Che si governa con gli “aiuti” – politiche centralistiche. Formalmente di equilibrio, e quasi di giustizia nazionale – di redistribuzione. Di fatto sempre come un piccolo tribunale di merito – incerto, inaffidabile. Che nella terminologia politica sarebbe corretto dire “sovietico”: dirigistico, di sottogoverno.

Imperialismo – Jovanotti, volendosi da qualche tempo riqualificare a sinistra, non perde occasione, e invita su “Repubblica” alla resistenza. I suoi concerti, dice, sono “l’unica resistenza che possiamo fare”. Lo dice anche alla vigilia del trasferimento negli Usa. Dove si fa più resistenza? Ma è indubbio che gli Usa, la potenza oggi imperiale, siano foco,lare, se non focolaio, di libertà.
L’imperialismo non ha mai avuto una funzione retrograda, esclusivamente negativa, come ora che si vuole liberatore e “giusto” (in guerre umanitarie, guerre giuste, guerre per i diritti civili) Nel mondo arabo e islamico in particolare, a cominciare dal Pakistan e dall’Afghanistan, dove ha voluto negli anni 1970 un islam militate, da usare come barriera contro il comunismo sovietico. E in Iran a conclusione della decade – l’imperialismo americano va veloce – giudicando Khomeini un baluardo più saldo dello scià contro l’Urss. E infine con la scelta filosalafita e sunnita che tanti lutti ha portato in Libano, alla prova generale, e poi in Algeria (tentativo fallito), in Iraq e ora di nuovo in Afghanistan e in Siria. Senza opposizione da parte di Israele. Solo perché questo islamismo è quello saudita, e quindi “americano”?

L’America è un buon padrone. Gli imperatori legittimi sono cattivi, nota Machiavelli, quelli d’adozione buoni. Lo stesso per gli scrittori secondo Jean Paul: “Ciò che un autore ruba è molto migliore di ciò che scrive lui stesso”. Imperialista fu l’ottimo Virgilio: “Tu regere imperio populos”, ingiunge a Roma nell’“Eneide”. E anche ora che è di marca Usa: l’imperialismo rispetta le forme. È corretto e perfino liberatorio, rispetto a ogni altro impero, in Europa, Cina, India, in Sud America, fra le dissolute tribù africane, i razzismi tribali, le tradizioni marce. Non ha imposto la vera religione, per esempio, lasciando crescere l’islam.

Anche l’imperialismo proletario, o straccione (la grande proletaria di Pascoli, etc.) ebbe una forte presa. Illusoria, ma duratura. Tra i palestinesi e in Afghanistan fino agli anni 1970 – in Afghanistan con Daud, il mussoliniano che volle il regime sovietico, fratello energico del conciliante re Zaher.

Sempre l’imperialismo moderno si vuole liberatore, dal giogo turco, lo scià di Persia, l’imperatore della Cina, le razzie, la schiavitù.

L’imperialismo segue all’impero, lo disse il Duce ma è vero. E non gli sopravvive.

L’imperialismo come opportunità. C’è anche questo: per il giovane di Rodi che nel Dodecaneso faceva il militare all’arsenale di Venezia, o il tirolese il fante a Roma, per il fellah curato nell’ospedale cristiano a Beirut. Il nazionalismo è naturale, come il diritto alla casa, è parte della personalità, la legge lo protegge. Ma è solo una forma di possesso. La libertà va con l’impero: l’orizzonte è largo, si impara, si gode, si guadagna di più.

Italia – Ranieri Polese trova l’altra domenica nella “Lettura” molto made in Italy negli anni 1950 in Inghilterra, per esempio in “Dalla Russia con amore” di Ian Fleming: la Beretta, la Vespa, la Lambretta, Annigoni, il “Corriere della sera” e il Martini Dry. Ce n’era molta di più prima, per esempio in Jemaes Hadley Chase, e nei thriller di Eric Ambler. Oggi non c’è molta Italia nei romanzi inglese o americani - c'è in abbondanza in Michael Dibdin, che però non ha molta fortuna. C’è spesso nei testi germanici (tedeschi, austriaci, svizzeri) – se non sono adattamenti in traduzione.

La ricerca storica torna alle radici, dopo aver latitato per un cinquantennio nella sociologia politica, quando non nelle grosse deformazioni del’opportunità polemica. Oggi per esempio “si fa” l’unità d’Italia, si analizza, si interpreta. Dopo centocinquant’anni di patriottismo incondizionato. Effetto del leghismo. È anche il nuovo meridionalismo.

Opinione pubblica - Conrad, “L’agente segreto”, ha “lo strano fenomeno emotivo chiamato opinione pubblica”.

Religione – La politica non ne può fare a meno, e la rivoluzione. Non c’è rivoluzione senza religione, ha sostenuto Alberoni, lo studioso dello statu nascenti. Non da solo. L’‘89, la rivoluzione borghese, fu sempre a rischio perché antireligiosa: isolata dalle rivolte anteriori, talora antichiesastiche ma religiose, Marx lo spiega, e Quinet. Anche se la leggenda nera antispagnola antigesuita, delle logge, i lumi e l’assolutismo, di Marnix, e Giuseppe II prima, e poi di Bismarck e il liceo zarista a Pietroburgo, fece testo tra gli stessi credenti. Che le religioni siano uguali è un sofisma, trova il laico Quinet. La Riforma fu poi derubricata a religione laica, mentre non apporta salvezza, neanche agli affari.
Sbaglia Montesquieu, cui risale l’errore: la religione non si uniforma alla politica. Ha ragione Quinet, uno storico sospeso dall’anticlericale Collège de France per eccesso di anticlericalismo, con Constant e Tocquevile: “Ovunque, sotto tutti i regimi politici, la religione è la legge delle leggi, sulla quale le altre si ordinano”. È stata l’unica libertà fino alla Magna Charta, l’antica libertà romana di culto, un analfabeta lo sa, ed è su di essa che i diritti si sono innestati, di coscienza, espressione, associazione, congregazione, stampa.
Montesquieu fece la religione accessoria: più la religione è severa più le leggi sono lassiste, dice, e il fatalismo trae dal dogma, il libero arbitrio dal codice. Ma la sostanza è la stessa, della religione e la vita civile. L’Inghilterra si ordina nel Seicento sulla chiesa episcopale, aristocratica, nota Quinet, gli Usa su quella presbiteriana, ugualitaria. L’Italia si ordina sulla democrazia plebiscitaria e anarcoide dell’ecclesìa.

Può essere questa un’altra forma del tribalismo. Bologna si governava bene col papa, o Siena, e Ancona, che rivaleggiava con Amsterdam, pure in libertà. Mentre gli americani sono democratici come gli inglesi, gelosamente uguali fra loro spietati fuori, ai giapponesi hanno spianato pure il cervello.

È sempre stata un cardine dell’impero americano. Nel secondo dopoguerra in Europa, e poi nel mondo islamico. In Europa gli Usa hanno scelto e rafforzato i partiti democristiani. Nel mondo islamico propongono il sunnismo, col sostegno saudita, in antitesi allo sciismo iraniano.

astolfo@antiit.eu

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