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venerdì 20 dicembre 2013

Heidegger si confronta con Jünger

Heidegger subì una fascinazione ultraventennale, dal 1932 al 1954, del “Lavoratore”, e anche di “Foglie e pietre” (“Sul dolore”) e “Un cuore avventuroso”, tre opere pur discontinue di Ernst Jünger. Su di esse, soprattutto sul “Lavoratore”, ha riflettuto per oltre quattrocento fogli di glosse, appunti, progetti, che ora prendono un volume delle opere compete, il XC, e vengono proposti da Marcello Barison con l’originale a fronte. Non ne ricavò un corso, né organizzò i materiali, come per Nietzsche, Hölderlin, Parmenide, Eraclito, non se ne “liberò”, se non in minima parte nel breve dialogo “Oltre la linea”, ritornandoci anzi su ripetutamente.
Nel 1953 se ne staccherà condensando le riflessioni nella conferenza La questione della tecnica, la cui pervasività riconduce al ritorno della metafisica (suo rovello costante, tra Platone e Kant) attraverso la volontà di potenza, ridotta però a soggettività, che si vuole misurabile, concretamente impiegabile, anzi progettabile. Finisce così col rifiuto, in una sorta di voluttà reazionaria, l’avventura di Heidegger con Jünger. Ma prima è come un suo alter ego: con lui si confronta sui temi più sensibili. Attratto, forse più che dalla materia del titolo, da quella del sottotitolo del “Lavoratore”: “Dominio e forma”.
L’identificazione è anche politica, benché non detta, nella rivoluzione conservatrice di cui Junger è capofila. Nella sfida della rivoluzione conservatrice all’innominato socialismo, che è il fondale di scena di entrambi – non si riflette mai abbastanza a quanto ha cambiato la storia della Germania il 1989, la caduta del Muro, e a quanto ha pesato prima, per settanta e più anni. Jünger sembra dapprima servire a Heidegger per agganciare l’intellettualità che ricostituiva la Germania nazionale, nella repubblica di Weimar internazionalista o degli “adempimenti” di guerra, sottomessa cioè a Versailles, alla sconfitta. Ma gli si rivela un punching ball stimolante per molteplici questioni. La scoperta della Forma, o Gestalt (§§ 122-134) – la forma mentis, poi sempre più immagine: “Il concetto di Jünger è diverso non soltanto nel «che cosa» (soldato, combattente), ma anche nel come in quanto forma (non classe)” (§ 102). La soggettività, da Jünger derivata da Nietzsche, a giudizio di Heidegger, e ampliata – come Nietzsche - in volontà di potenza. Di contro al realismo, che definirà infine lapidario, tra i tanti andirivieni, come “competizione del pensiero con l’essere” (§§ 69-75): “Prendere piede nell’essere. Ma come? In quanto attuazione della soggettività”. E al fondo sempre la curiosità per il rigurgito metafisico costante, da Nietzsche a Jünger, in ragione sempre della soggettività.
Un dizionario politico di Heidegger, in particolare, ci troverebbe ottimo materiale. Al § 110: “Per nulla soggettivo – anzi troppo oggettivo – l’essere della moderna soggettività. Psicoanalisi modernamente convertita in forma di dominio e modificata in chiave poetica. Lo straniamento rispetto alla storia, perché non presagito e perché vittima della ricerca: ossia storiografia”. Con una curiosa difesa del “borghese”, che Jünger rappresenta sfavorevolmente (“unilateralmente”) a fronte del lavoratore. Non per riflesso condizionato ma per solida articolazione, attraverso il concetto di “dominio”, al § 103: “Dominio apparente significa non soltanto che si trattava di un dominio non effettivamente realizzato, bensì che l’essenza del dominio non veniva affatto esperita e non poteva essere esperita. Jünger pone il borghese in una prospettiva di confronto che questi fin dal principio non riconosce come tale”. E una rivalutazione del “ceto” invece della “classe”, anch’essa articolata – al § 104: “La lotta tra i ceti  non sconvolge mai la società nel suo insieme e non attacca mai il «principio» della sua costruzione”. Il lavoro (§§ 94-95), l’“elementare” (§§ 107-114),  la guerra, la libertà (§§ 135-148), il progresso (149-153). La volontà di potenza, su cui si registra (il lungo § 175) un primo distacco da Jünger, che Heidegger áncora a una concezione “romantica”: “Secondo Jünger.... la  «volontà di potenza» indica un  «atteggiamento», in cui giunge ad espressione un  «senso di mancanza».... Questa è una assurdità.... Volontà di potenza significa comandare la potenza (ossia attuazione del dominio) - dominare la sua attuazione”. C’è perfino Dio, al § 120: “Il mondo come «immagine» (Bild) – forma (Gebilde), caso ammaestrato – essenziale solo là dove il caso s’installa”.
Una conferma delle inesauribili capacità analitiche di Heidegger – specie a fronte della relativa indigenza delle proposizioni su cui si esercita (il proprio di Jünger è l’esposizione-narrazione, con l’occhio dell’entomologo curioso, ma escludendone la precisione, fuori quindi di ogni coerenza: la sua immagine è dichiaratamente creativa, non ragionativa: evocativa, anche vaga). Riflessioni però anch’esse a fini di verità e non di sistema, di dimostrazione – anticipando la “svolta” di fine guerra, quando Heidegger pretenderà a un pensiero non sistematico, sul linguaggio, la poesia, la verità.
Singolare è la fascinazione che Jünger - uno scrittore, quando non era entomolog - esercita su Heidegger. Il non detto della raccolta è la sintonia sul nazionalismo. Fino al nazismo, o alla sua anticamera - da sopracciò, più che da critici: da intellettuali snob, Jünger per costituzione (formazione), Heidegger per posa. Uno storico del nazismo ci troverà molti riferimenti, evidenti anche se non dichiarati, comuni a Heidegger come a Jünger: sulla volontà di potenza, le necessità del dominio, la diversità (razzismo) spirituale. Insieme a un curioso, ripetuto, accenno a una sorta di fratria segreta, di cenacolo ristretto di uomini superiori.
Martin Heidegger, Ernst Jünger, Bompiani, pp. 871 € 35

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