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venerdì 20 dicembre 2013

Come i camorristi furono “liberati” a Napoli

Non è “Ocean’s Eleven”, la sorpresa è all’inizio e non alla fine – forse per questo “Repubblica” la relega in una breve, e il “Corriere della sera” nella cronaca locale. Ma è pur sempre una storia inattesa: come la giustizia protegge i camorristi a Napoli. Processando quello che si era specializzato nella caccia ai capi camorristi.
Non una grande trovata, per la verità. Ma è una giustizia che può farlo, e anche farsene titolo di merito. Che non è, letterariamente, neanche questo un grande plot, è roba da repubblica delle banane. Ma sì se si paluda di diritto, con auguste toghe e rispettabilissime cariche, negli alti palazzi dei più rispettati poteri.
Il processo e l’assoluzione di Pisani, il capo della Mobile di Napoli, non avranno seguito, e questo dice tutto sullo stato della giustizia. O meglio dell’apparato repressivo. Niente a carico dei giudici che hanno inquisito Pisani senza fondamento. Niente a carico della Dia napoletana, e dei “colleghi” napoletani di Pisani che hanno raccolto le “prove” contro di lui. Che poi si riducono, Dia, colleghi e prove, a uno: un “pentito”. Uno talmente falso, in tutte le fasi dell’inchiesta e del processo, che ci si chiede come abbiano potuto produrlo.
Il processo ha un solo senso. Ha bloccato, e ha disconnesso, la caccia ai capi camorristi. I giudici accusatori, Sergio Amato e Enrica Parascandolo,  che avevano chiesto tre mesi fa quattro anni e rotti per l’ex capo della mobile, questo l’hanno ottenuto, di allontanarlo da Napoli. Seminando veleni che impediranno a lungo alla repressione a Napoli di funzionare. Irritualmente, il non ingenuo Amato ha infatti ringraziato gli uomini della Dia, la Polizia speciale (“si è cercato di buttare fango su di loro”), e gli uomini della Squadra Mobile “con la schiena dritta”,  per la “leale collaborazione”.
Perché nessuno paga per questo? Perché i fedifraghi non sono perseguibili? Si permettono di giocare a carte scoperte: per quale protezione?

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