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venerdì 6 dicembre 2013

Il buonsenso è nello studio, dei classici

Riediti in originale col titolo “Le bon sens ou l’esprit français” (Mille-et-une-nuit, pp. 79 € 3,50), queste tre conferenze di Bergson raccolte nel 1996 da Armando Editore davano già la migliore giustificazione dell’uso dei classici che ora si contesta. “Ci si domanda con inquietudine crescente”, nel 1895, data della prima conferenza, alla Sorbona, “se gli studi disinteressati hanno efficacia pratica, e in particolare se il buonsenso, che è una virtù civica nei paesi liberi, varii in ragione della cultura intellettuale”. La cultura intellettuale come distinta, allora, dalla cultura materiale, artigianale. Il sì è molto argomentato. Il buonsenso Bergson preciserà in altra occasione come “la forza interiore che rende possibile la concentrazione di ogni nostra vita passata in un solo punto; forza che è anzitutto un potere d’inibizione”. Di selezione, effetto della capacità critica. Effetto a sua volta dell’esercizio.
Oggi Bergson avrebbe avuto prova netta, a contrariis, del suo argomentare. Tra i tifosi allo stadio, come tra i genitori a scuola, in ogni raccolta di popolo, e così probabilmente nel decadimento del voto politico, la protervia cresce di pari passo con l’incultura. È sempre stato così, non si può pretendere il “buonsenso”, la ragione temperata, da chi non l’ha esercitata. Ma prima c’erano dei ruoli, che trascinavano dei vincoli, più spesso in forma di autocoscienza. Ora i ruoli sono invertiti: il diritto di non sapere si vuole superiore. Politicamente, per il numero, ma anche socialmente e moralmente. Sancito due generazioni fa dal diritto di non imparare, nella scuola del’obbligo.
Henri Bergson, Educazione, cultura, scuola

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