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mercoledì 26 febbraio 2014

Letture - 163

letterautore

Camilleri - Una vecchia saggezza poneva la felicità del narratore al meglio su un arco di quindici anni, a partire dalla prima maturità. Poi cessava: l’ispirazione, l’inventiva, la disposizione felice – la voglia cioè di fare, la fede in se stessi. Camilleri, narratore tardivo, è prolifico invece in ragione inversa degli anni – più creativo a mano a mano che cresce, ora verso i novanta.

Comico – È sadico. Aggressivo, ostinato. Da Hobbes a Freud, essendo la ridicolizzazione dell’altro, e una forma di derisione. Non nello scherzo, nello humour, nel Witz, dove è invenzione linguistica.
Un’estensione dalla fantasia creativa dell’infanzia, prima delle regole e della grammatica del linguaggio. Lo rimarca W.Benjamin a proposito di Jean Paul (nel saggio ora in “Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura”: “La sua essenza è quella della fantasia, che porta la forma alla metamorfosi. Un accadere che disfa le forme”.
È il privilegio dello spettatore-lettore.

Conrad  - Orwell lo vuole scrittore al meglio “terragno” invece che “di mare”. Meno esotico, miglior narratore. In effetti, i romanzi politici, “L’agente segreto”, “Con gli occhi dell’Occidente”, lo stesso eccessivo “Cuore di tenebra”, e i racconti, sono meglio strutturati, più contenuti e memorabili.

Dante Tedesco lo voleva l’italianista Emil Ruth un secolo e mezzo fa
(ma già Michelet nella “Storia di Francia”, che il ghibellino dice uomo del legame feudale, del giuramento di sangue, della devozione affettuosa: “il Tedesco”, Dante compreso, aggiunge, come opposto all’uomo della legge e della ragione, “il Francese” – era la storia dei “primati”).
E perché non ebreo, se suo padre era un usuraio? Magari ebreo tedesco.

Si vuole Dante arabo e islamico anche per il simbolismo della scala. Ma questo simbolismo René Guénon ricorda bene che è biblico, di origine caldeica e mithraica (“L’esoterismo di Dante”, cap. III)..

Poteva mancare un Dante “indiano”? Angelo De Gubernatis ne ha ipotizzato uno sul “Giornale della società asiatica italiana” nel 1889, che la complicata costruzione dell’esistenza celeste sotto forma di cieli e inferni gerarchicamente organizzati sia stata mediata dal brahmanesimo o forse dal buddismo (“Dante e l’India”).
Anche Frèderic Ozanam, lo studioso dell’Ottocento oggi beato, aveva intravisto un’influenza indiana, in aggiunta a quella islamica, su Dante – “Dante e la filosofia cattolica nel tredicesimo secolo”.

Dialetto – Heidegger lo lega al “poetare” e all’“abitare”, al radicamento  cioè e all’espressività. “Poetare e abitare sono in connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente”. E questo è possibile attraverso il dialetto: “Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto”. In questa forma lo riafferma, pochi anni dopo “L’amico di Casa” (Hebel), in “Linguaggio e terra natìa,”, 1962, il saggio conferito al volume celebrativo di Carl Burckhardt nel 1961: “Ed esso rimane tale perfino quando giunge ad essere linguaggio planetario. Infatti anch’esso ha la sua elezione e la sua particolarità”. E subito dopo in altra forma: “Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre”, la lingua cioè che circonda l’infante, “il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”.

Cases, recensendo nel 1988 la prima traduzione del “Tesoretto” di Hebel, sembra prendere le distanze: “Non voglio insistere con Heidegger… sulle profondità abissali della “Heimat” (patria) da cui emerge il linguaggio hebeliano. A parte Heidegger, siamo tutti illuministi (Hebel per primo) e non crediamo in questo fondo oscuro dell’anima contadina che si rivela solo nel dialetto”. Ma, esaurita la punta polemica, di fatto concorda: “Il profumo intraducibile del linguaggio di Hebel sta nel fatto che esso realizza l’antico sogno della fusione della lingua e del dialetto, del particolare e dell’universale; il protendersi del linguaggio “naturale” verso la comunicazione razionale, il trapassare della spontaneità in cultura senza che il primo elemento sia mai rinnegato”.

Mundart, la parola tedesca per “dialetto” non piaceva a Heidegger (“Linguaggio e terra natia”), perché dice solo “la comunicazione verbale, il carattere sonoro del linguaggio”. Gli piaceva di più “la parola straniera Dialekt”, perché di senso originario “eletto”, il greco dialégein, “il parlare l’uno con l’altro che è la matrice del linguaggio – “un parlare reciproco di tipo eletto, sì, particolare, e cioè un ascoltare l’uno dopo l’altro”. Ma Mundart ha un senso pratico più suggestivo, un parlare al modo della bocca – l’arte vocale come una sorta di natura.

Gran Lombardo – Ricorre in Dante – Purgatorio, XVIII, 121. Ma riferito a un veronese: Bartolomeo della Scala, primogenito e erede di Alberto I, signore di Verona dal 1301 al 1304.
Anche questo riferimento è ritenuto forzato. Bartolomeo è detto il “gran lombardo” in ricordo dell’accoglienza che Dante ne avrebbe avuto nell’esilio, quando si era distaccato dagli altri ghibelini come lui esiliati. Mentre non fu così. Non almeno nel primo soggiorno veronese di Dante. Che fu invece ottimamente trattato a Verona nel suo secondo soggiorno, da Cangrande della Scala.

Traduzione – La poesia (il senso), anche della prosa, è il come e non la cosa. Ciò non impedisce ottime traduzioni, per esempio di Dante in francese, e anche in inglese – mentre non è faustiano né goethiano il “Faust” di Franco Fortini. Il problema è quando la cosa si lega al come, per esempio nel Belli. Anche in molte prose di Gadda. Che per questo diventano “intraducibili”. E invece vengono tradotti. Non a metà: rileggendoli in traduzione non  perdono sapore.
Il come è legato alla cosa, naturalmente. Ma non è tutto. La creazione non avviene probabilmente in privativa. Non del tutto. La comunicazione ha più armi dell’incomunicabile.

letterautore@antiit.eu

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