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lunedì 22 giugno 2015

Il mio amico Foucault

”Un bel giorno, Foucault ha imprudentemente suggerito che l’umanità dei tempi nostri cominciava a imparare ha incominciato a imparare che poteva vivere senza miti, senza religione e senza filosofia, senza verità generali su se stessa”. Imprudentemente, a metà opera, lo storico antichista Veyne, impegnato a dare spessore filosofico all’amico di una vita Foucault, rovescia l’assunto. Sula base di Foucault, che non si taceva le sue debolezze. E che resta uno storico (“archeologo”). Anche, a tempo peso, fra una ricerca storica e l’altra, filosofo della storia, ma senza molto impegno, e non preciso né attendibile. È che il lavoro di Veyne, un omaggio all’amicizia, è impegnato a puntellare Foucault in ogni punto debole, e a emendarne le sbandate.
Sul piano personale, un ritratto seducente. “Esile, elegante e tagliente personaggio, che niente e nessuno faceva indietreggiare, e la cui scherma intellettuale maneggiava la penna come se fosse una sciabola”, “il buon sessantottardo”, dal “sottile profilo con scoppi di risa”. Un intellettuale d’azione, goloso della vita, il 68 in piazza, le canne, l’Lsd, e le black rooms a san Francisco, nelle pause dell’insegnamento a Berkeley, da cui uscirà mortalmente infetto nel 1984, quando ancora di Aids si sapeva poco e non si diceva niente. Ma uno che sapeva a memoria tutto Char, il poeta, e non si voleva un eversore contro la verità, la moralità e la normalità: “Niente di tutto questo: non ha fatto che proporre delle riforme circostanziate  (come la soppressione della pena di morte), e non insegnava l’anarchia e la dissolutezza”. Un scrittore. Di sinistra, senza essere di partito, né fazioso, neanche nella sua propria difesa. Riformatore sempre in moto: sulla follia, la malattia, la pratica linguistica, il sesso, la cura di sé, Khomeini e la rivoluzione gentile. Esploratore instancabile, e uomo di pensiero inflessibile, diretto piuttosto che ironico.
La testimonianza è appassionante, oltre che leggibile, anche nella ricostruzione delle idee. Che Foucault lega allo scetticismo, al relativismo, a Heidegger molto, seppure in modo molto diminutivo per il filosofo svevo, e soprattutto a Wittgenstein – Foucault chiama “giochi di verità” quelli che Wittgestein chiama “giochi di linguaggio”. L’archeologo alla ricerca di “dispositivi” - in vece delle “strutture”. Nell’ambito del “discorso” – “termine scelto male”– che è il quadro formale attraverso il quale conosciamo. L’Idealtypus di Max Weber – e l’ “opinione” di Nietsche? La “cosa in sé” di Kant riportata alla singolarità. Mai definito ma sempre evocato lungo gli anni, “con le parole di discorso, ma anche di pratiche discorsive, di presupposti, di epistemè, dispositivi…”. Anche mobili, anzi “erranti”: le mutazioni sono ininterrotte nei secoli, benché misteriose. Più o meno analoghe ai modi (attributi) di Spinoza, alle monadi di Leibniz, ai multipli di Platone.
Foucault non potrebbe non concordare, che la storia vedeva “come una successione di fratture”. Come “antropologia empirica”. E “opera di teatro”: capire ciò che gli altri dicono e fanno è mestiere di attore (mettersi nella pelle dell’altro) e di drammaturgo (trovare le parole per dirlo). Una rappresentazione sarebbe il termine più esaustivo.
Paul Veyne, Foucault. Il pensiero e l’uomo, pp. 197 € 19


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