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giovedì 25 giugno 2015

L’Olocausto dei figli fu amarezza e risentimento

Amarezza, risentimento. Per i più giovani soprattutto, per molti “figli nascosti” e nipoti, l’Olocausto dei genitori ha significato una vita perduta, angustiata fino alla solitudine. Contro la patria, tanto più se nuova o priva di significato. Contro l’ambiente di vita: vicini, conoscenti. Contro la famiglia stessa, e nel fondo la “differenza”, religione o razza che si voglia.
Denise Epstein, la figlia maggiore di Irène Némirovsky - aveva dodici anni quando la madre fu internata a Auschwitz dove morì senza traccia - ha solo amarezza e risentimento. Della madre ha saputo salvare molti testi importanti, tra essi la famosa “Suite francese”, ma non si è riconciliata. Ha vissuto sposata, con figli e nipoti, e con un lavoro, a Tolosa, ma non può dire sua la Francia. La religione non c’è: l’ebraismo latitava in famiglia,  il cristianesimo del tardo battesimo è una barzelletta, una serie di barzellette. Nessuna gratitudine nemmeno per la protezione in convento al coperto della Resistenza. Non c’è riconoscenza. Per l’editore Albin Michel un po’, ma non per Julie Dumot, ex dama di compagnia dei nonni che si assunse molti rischi all’inizio per portarsi tutrice delle due orfane, e inventò dopo la guerra un para-consiglio di famiglia con l’editore Albin Michel, la Société des gens de lettres e la banca dove lavorava il padre, per finanziarne l’istruzione in un educandato, a pensione: Denise la sospetta di appropriazioni e ruberie. La stessa banca, che la assumerà a diciotto anni, e si occuperà anche della sua salute, è oggetto di vituperio. .
L’ebraicità è una sorta di tara. Il sionismo ha tentato di rapirla in treno, a quindici anni, come “figlia orfana” da educare in Israele. La nonna materna si è rifiutata di accogliere lei e la sorella orfane nel 1942, e le ha diseredate alla morte. I genitori erano superficiali che sapevano tutto e nulla predisposero per salvarsi, loro e le figlie. Alle quali avevano imposto un’educazione mostruosamente restrittiva: niente nuoto perché il mare è traditore, niente scuola perché si prendono le malattie, le figlie confidando alle istitutrici. Una madre che soprattutto scriveva: leggeva ai bambini i giornali dei bambini perché ne era golosa (si abbonava col nome della balia), ma di suo scriveva, furiosamente, come “una sorta di pre-scienza”, dice Denise, di presentimento.
La sorella minore, Elisabeth, cinque anni al momento della fine, ha superato in qualche modo il trauma, in “Mirador”, una memoria bilanciata, che sa essere gaia talvolta anche sui fatti tristi – la nonna, le pellicce, le suore. Denise, pur dedita alla memoria della madre, di cui sembra in foto la copia, non ha conservato una goccia della di lei gioia di vivere. E lo sa, lo dice ripetutamente.  Si è rassegnata e non si riconcilia, neppure in questa tarda confessione a futura memoria. In odio alle suore, seppure per motivi diversi, le due sorelle hanno vissuto separate, ritrovandosi “molto tempo dopo”, con difficoltà – e solo in odio alle suore.
La serenità ritorna da ultimo, nell’assistenza alla sorella in agonia, e nella riscoperta delle radici. Ma più nella famiglia russa della madre che in Israele, una sorta di consolazione – essere (considerata) russa era la via d’uscita anche nell’autofinzione della madre operata da Elisabeth, “Mirador”.
Denise Epstein, Sopravvivere e vivere, Adelphi, pp. 181 € 13

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