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giovedì 7 aprile 2016

Il mondo com'è (256)

astolfo

Dottrina Obama – Il Medio Oriente non è più prioritario per gli Usa, secondo Obama. Gli Usa devono darsi delle priorità di politica internazionale, e difendere le zone d’influenza là dove possono farlo con successo, senza invischiarsi in conflitti “che dissanguano la credibilità e la potenza degli Stati Uniti”. Questo il nodo della “Dottrina Obama”, la sintesi delle posizioni del presidente Usa in politica estera da lui affidate a Jeffrey Goldberg, col titolo “The Obama Doctrine”, sul mensile “The Atlantic” di aprile. È la “sindrome Vietnam”, non menzionata nel saggio, rinverdita recentemente da Henry Kissinger nel voluminoso “L’ordine mondiale”: gli Usa combattono da quindici anni una guerra in Medio Oriente che non riescono a portare a conclusione.
Goldberg schematizza in dieci punti la posizione di Obama. Con la revisione presidenziale, di Benjamin Rhodes, del Consiglio Nazionale di Sicurezza (Nsa), redattore dei discorsi di politica estera di Obama, e dello stesso presidente che ha riletto il testo:
1. Orgoglioso di non ave colpito Assad nel 2013 (dopo l’uso dei gas nervini alla periferia di Damasco).
2. È necessario  spostare l’asse degli interessi Usa dal Medio Oriente all’Asia e altre regioni.
2. L’Ucraina sarà sempre vulnerabile all’influenza russa.
4. Orgoglioso di aver contrastato John Kerry e la retorica degli attacchi militari – in realtà di aver contrastato il Pentagono.
5. L’Arabia Saudita deve condividere il Medio Oriente con l’Iran, come sub-potenze stabilizzatrici.
6. L’Is è il Joker dei fumetti – il genio del male di Batman, il killer inafferrabile, esperto di esplosivi, torturatore, manipolatore, resistente a ogni attacco…
7. Putin “non è completamente stupido”.
8. Francia e Gran Bretagna hanno creato un pasticcio in Libia.
9. L’Is non è una minaccia esistenziale, il mutamento climatico lo è.
10.Le lezioni di Netanyahu lo indispettiscono. 
Nulla di eccezionale, eccetto che su un punto: il riaggiustamento delle priorità americane, cominciando dal parziale disimpegno nel Medio Oriente, regione ingovernabile. Alla critica dell’establishment di Washington, che gli rimprovera il declino della potenza Usa, Obama obietta che “il Medio Oriente non è più terribilmente importante per gli interessi americani”. In subordine aggiunge che, “seppure il Medio Oriente fosse di straordinaria importanza, c’è poco che il presidente americano possa fare per renderlo un posto migliore”. Il riferimento qui è a Netanyahu, il primo ministro israeliano, ch praticamente ha estromesso Obama da qualsiasi coinvolgimento nella questione arabo-israeliana. Il presupposto è che “il mondo non può permettersi di vedere la potenza americana indebolita”, come sta avvenendo da un quindicennio appunto in Medio Oriente.
In realtà, il senso di tutta la “Dottrina Obama” è questo: non un ridimensionamento dell’influenza americana ma un riposizionamento. Col fine peraltro di riacquistare credibilità, cioè di rafforzare l’influenza stessa. Eccettuato il Medio Oriente, non c’è regione al mondo o problema che Obama ritenga estranei agli interessi americani.   

Easter Rising – La rivoluzione più fallimentare sarà stata la più proficua? È quello che è successo a Dublino un secolo fa, nella rivolta della settimana di Pasqua del 1916, tra il 24 e il 30 aprile - le due Pasque a un secolo di distanza sono temporalmente speculari, una delle più anticipate quest’anno, una delle più ritardate un  secolo fa. Organizzata male, anzi non organizzata, e domata facilmente, anche se a costo di molte vittime e molte macerie – gli inglesi, contro cui l’Irlanda si rivoltava, avevano molti cannoni in città. I nazionalisti irlandesi pensavano di trovarsi di fronte un nemico indebolito, impegnato com’era nella guerra sul continente. E agirono d’accordo con la nemica Germania, che mandò una nave piena di armi. Ma non riuscirono nemmeno a sbarcare le armi. E avevano trascurato che con gli inglesi combattevano 300 mila giovani irlandesi, con famiglie numerose in città e nel paese.
La rivolta si svolse quindi nell’indifferenza del popolo, nelle campagne e anche in città. A Dublino,  come vide e raccontò James Stephens, lo scrittore stimato da Joyce, che pensò perfino di coinvolgerlo nella continuazione di “Finnegas Wake”, opera sempre in progress, le folle si impegnarono ad assaltare le pasticcerie, ben rifornite per le feste. Ma la rivolta fallimentare impose il principio dell’indipendenza dell’Irlanda, che non tardò, almeno per una parte.

Germania  Dai Sudeti al Paraguay e al Volga ha mantenuto un’identità forte attraverso i secoli. Non alla maniera di altre emigrazioni, magari più di massa di quelle tedesche, per esempio degli italiani, che perpetuano gli usi (alimentari, parentali, religiosi) e la lingua per un paio di generazioni, per un moto naturale di resistenza, ma in modo razziale. Per inbreeding, lingua, folklore, sempre antagonizzando le popolazioni presso le quali si sono trasferiti. Adesso in subordine alla grande immigrazione, il recupero dei “tedeschi nazionali” è stato forte durante la prima fase della Repubblica Federale, con vasti programmi di recupero e reinsediamento.

Quella tedesca è una diaspora – un altro dei tanti modi di essere e argomentare che avvicina semmai i tedeschi agli ebrei: il tribalismo.
È tedesco pure Woody Allen, prussiano: di nome fa Königsberg, la città di Kant – Allan Königsberg.

Imprese pubbliche – Si comparano in modo favorevole – estremamente favorevole – col mercato liberalizzato e privatizzato. Sia come gestione, sia come livello di corruzione politica (sottogoverno): la protezione dei media e della giudicatura, di cui gode il mercato privatizzato, non può nascondere i fatti. La deriva di Telecom rispetto alla Sip-Stet. I rincari e i disservizi dell’elettricità privatizzata. Le banche Iri, prima e dopo: non c’è comparazione possibile. Le infrastrutture del Sud, cui l’Iri provvedeva per il 40 per cento dei suoi investimenti, oltre alla Cassa del mezzogiorno, ferme a venticinque anni fa. Gli scampoli di Sme, un colosso alimentare frantumato e svenduto, in una serie di marchi che mettono il cappello dell’italianità su produzioni eccentriche – un cavallo di Troia a molte teste contro l’agroindustria italiana. I ritardi di Autostrade: quasi trent’anni per la “variante di valico” Bologna-Firenze, la tratta Orte-Firenze ancora a doppia corsia stretta, idem la Firenze-Mare. L’interruzione della cablatura che Stet aveva avviato col progetto Proteo, che avrebbe proiettato l’Italia all’avanguardia nella comunicazione elettronica – il progetto viene ripreso oggi da Enel, che però è aspramente avversato dai soggetti privati..
Guardando alle privatizzazioni, dopo un quarto di secolo, si trovano soprattutto e ovunque macerie. Gli unici che ne profittano sono le “banche” d’affari: affaristi e società di affaristi che comprano e vendono. Che sono poi gli stessi che fanno l’informazione, tutta piegata a loro favore. senza mai un dubbio. Per non dire dei giudici. Tutti pagano tangenti in certi mercati, specie quelli arabi e asiatici: la mediazione è inevitabile. Ma solo quelle delle imprese ancora pubbliche vengono perseguite dai giudici italiani - quasi sempre su denunce ascrivibili a interessi stranieri, concorrenti e\o servizi segreti. Resistono i mercati esteri che l’Eni aveva aperto negli anni 1950, Egitto e Russia nel 1955, Iran nel 1957 – con la Libia dopo il golpe di Gheddafi, 1969: hanno ancora l’Italia come primo, o tra i primi, partner economici. Ma con sempre maggiori difficoltà. Gli interessi puntati a minare queste relazioni trovano continui echi nei media e nelle Procure italiane, distruttivi senza ragione.
Sul lato corruzione organica, o sottogoverno, l’elenco dei disastri privati è interminabile. Il più sintomatico è il caso Sip-Telecom: una serie di favori a questo e quell’interesse monopolistico, Agnelli, Colaninno, Tronchetti Provera, sotto la regia di Cuccia, il padrino di questo malaffare, e infine un gruppo abbandonato, spolpato, alle banche, mentre il personale, presto dimezzato, ora dovrà ridursi a un terzo e forse a un quarto. E non è tutto: molto più che a favore dei “salotti buoni”,  lo smembramento e la liberalizzazione della grandi imprese pubbliche si sono fatti a beneficio delle fauci inesauste degli interessi politici locali. Gli stessi che oggi, per fare un esempio paradigmatico, sullo smaltimento dei rifiuti, sulla riconversione di Bagnoli, sulla potabilizzazione dell’acqua, sul risanamento dei quartieri, rivendica il sindaco-tipo, il napoletano De Magistris, senza averne la capacità e nemmeno la volontà, giusto per governare gli appalti relativi. L’appropriazione degli interessi pubblici da parte del sottogoverno locale è fortissima soprattutto nella sanità – dove oggi il giudice Cantore scopre tangenti per seimila miliardi l’anno – e l’ambiente, i due maggiori canali della spesa pubblica.
Restano fuori dal ludibrio, tra i grandi gruppi privatizzati, Eni, Enel e Finmeccanica. Ma perché sono fintamente privatizzati: operano sul mercato – su mercati anzi difficili, molto internazionali, molto competitivi - ma in una logica ancora di interesse pubblico: produttività, investimenti oculati e quindi creazione e non distruzione di lavoro e reddito, limitazione del sottogoverno, attenzione alle appropriazioni indebite – la corruzione è impossibilitata dagli audit, e comunque è ridotta, impercettibile rispetto ai flussi del privato sottogoverno.

Presidenziali Usa – I poteri del presidente Usa sono decisivi e anzi totalitari per quanto concerne la politica estera. Mentre la politica interna resta terreno prevalentemente parlamentare, condizionato e deciso dal Congresso e dagli Stati dell’Unione. Ma le candidature nella lunga campagna elettorale si definiscono esclusivamente in base alle questioni interne agli Usa – la conoscenza dei fatti esterni è ridotta alla curiosità e allo scherzo.

Turchia – Ritorna di prepotenza ottomana. Dalla Siria fino all’Oman, e all’Egitto. È parte attiva dei conflitti civili dentro la Siria. In Iraq combatte i curdi indipendentisti della regione di Mossul e Kirkuk. In entrambi i paesi ha tenuto in vita, e tuttora usa, l’Is. Aprirà una base militare nel Qatar, secondo un accordo firmato a dicembre, forte di tremila soldati – un accordo simbolico, per i cent’anni dal 1915, quando le truppe ottomane chiudevano a Doha, la capitale dell’emirato, la loro presenza nel Golfo Persico. E si presenta esportatrice di armi nella regione. L’associazione delle industrie belliche turche, Musiad, ha organizzato una fiera a settembre nel Qatar e altre ha in programma nel Kuwait e in Arabia Saudita. I paesi arabi del Golfo hanno una spesa militare in forte espansione, anche negli ultimi due anni malgrado il calo del prezzo del petrolio: La spesa per la difesa dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo è aumentata del 66 per cento nei cinque anni dal 2010, da 74,7 a 124,1 miliardi di dollari. In particolare per gli armamenti, la spesa complessiva dal 2007 è stata secondo il Consiglio di 135 miliardi.
In questa ottica va visto il deterioramento improvviso delle relazioni con Israele, che erano state invece strette in tutto il dopoguerra. E l’offerta di sostegno diplomatico e collaborazione militare all’Egitto – prima di Al-Sisi, è vero, con la presidenza dei fratelli Mussulmani (Al-Sisi è nemico giurato dell’Is).


La riottomanizzazione della Turchia va di pari passo, curiosamente, con la sua europeizzazione. Se andrà a effetto l’accordo per gli immigrati con l’Unione Europea di fine marzo. L’accordo infatti affida alla Turchia la regolazione degli afflussi di immigrati ai vari Paesi europei secondo il vecchio accordo delle quote, una responsabilità enorme. Accoglie di fatto la Turchia nel sistema di Schengen, o della libera circolazione, abolendo i visti. E riavvia il negoziato per l’adesione della Turchia alla Ue quale paese membro. Tre esiti di enorme importanza. Si capisce il potere che il presidente Erdogan ha accumulato all’interno del Paese, per effetto di questa duplice proiezione internazionale, in termini di influenza e di orgoglio nazionale. Fino a spingerlo alla semi guerra civile contro i curdi turchi, e alla chiusura dei giornali di opposizione, con l’accusa di tradimento.

Il mancato riconoscimento delle minoranze e la violenza contro la libertà d’opinione dovrebbero precludere a questa Turchia l’accesso a Schengen, nonché l’ammissione alla Ue. Ma non è detto. 

astolfo@antiit.eu 

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