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martedì 23 maggio 2017

Arabia non più felix

Il mondo arabo si trova on the brink, sull’orlo del precipizio, per almeno due aspetti. Il primo sono le fratellanze mussulmane, variamente radicali ma tutte sovversive delle due tipologie di regimi che lo governano, il bonapartismo (Nord Africa e Medio Oriente propriamente detto) e il tribalismo. Il secondo è la riduzione della rendita petrolifera, in termini reali e perfino nominali. La riduzione è certa a lungo termine per ragioni fisiche, tecnologiche e di protezione dell’ambiente, ma probabile già nel medio termine, e in atto da un paio d’anni per ragioni di mercato. La rendita però impegna, come risorse e come investimenti, più della metà del “fatturato” della regione.
È su queste ipotesi  che lavorano i maggiori centri finanziari e bancari mondiali. La rendita si assottiglia a fronte delle spese, d’investimento e militari. E in assoluto, in termini di introiti, malgrado l’entrata sul mercato dei grandi consumatori asiatici, Cina e India, che hanno irrobustito una domanda calante. Il calo è marcato benché il prezzo del greggio sia tenuto artificialmente alto per consentire lo sfruttamento in Nord America (Usa e Canada) degli scisti bituminosi.
Il consumo mondiale di petrolio è fermo da tempo, per le politiche di riduzione dei consumi e dell’uso di fonti di energia non fossili. Per gli stessi motivi l’attuale equilibrio, di prezzi-quantità, già precario per i paesi produttori, è destinato a peggiorare
L’insufficienza della rendita si fa sentire sui bilanci per ora soltanto dell’Arabia Saudita. Ma inciderà anche su quelli di Qatar, Bahrein ed Emirati (Abu Dhabi, Dubai), malgrado le diversificazioni importanti già attuate dai regnanti. E comunque nessuna realtà della regione, l’Egitto compreso, passerebbe indenne a un crac saudita.

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