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sabato 18 agosto 2018

L'ubiqua dissoluzione delle cose

Un divertimento. Verbale. Ubik, anglolatino per ubiquo, invasivo, è la scansione reclamistica di ogni capitolo: lo spray deodorante è Ubik, Ubik è “il modo migliore di chiedere una birra”, è Ubik “il caffè istantaneo doppia fragranza” - e sarà salvifico, unico rimedio la pubblicità. Schonheit von Vogelsang, il custode dei Diletti Fratelli ibernati, naturalmente in Svizzera, dove altro, è “bellezza del canto degli uccelli”. In un mondo popolato da precog, precognitivi ma non troppo, psi, telepati, e mille polizie. Molto americano, soprattutto le polizie, ma anche contemporaneo, perfino visionario. Si va sulla luna, e si ritorna. C’è già, 1966-69, internet, “macchina omeodiana”. C’è skype, macchine si muovono a pannelli solari, ci sono motori di ricerca, si ricerca digitando sigle.
Un divertimento sessantottesco. Liberato, da ogni schema di genere - prolisso, ma ancora lieve. Si ascolta la “Missa solemnis” di Beethoven, seguita dal “Requiem” di Verdi, versetto per versetto – ricordando, al culmine dell’azione, che Toscanini usava cantare alle esecuzioni con i cantanti. Fidel Castro è già “moneta obsoleta”, ora c’è Walt Disney. C’è il consumismo, scandito capitolo per capitolo dagli Ubik – “con del denaro che non vale niente si acquistano articoli che non valgono niente”.  
Ma non una parodia, tanto meno una satira. Una straordinaria capacità mimetica, divertita ma solo lievemente, sottotraccia. “Pat controlla il futuro. Ha questa luminosa possibilità perché lei è andata nel passato e lo ha cambiato”. Come fa lo storico - storica nell’occasione. La storica Pat però specifica: “Posso modificare il passato, ma non andare nel passato”, come si vorrebbe in un fantascientifico viaggio nel tempo. E c’è ancora uno sviluppo: Pat, la leggiadra ragazza diciassettenne che fa (rifà) la storia, è “l’unica a ricordare”. In mezzo a precog che solo “possono prevedere ma non possono modificare alcunché”, e possono prevedere l’esperienza passata.
Questa è una delle tante storie che Dick intreccia in in una sorta di carambola, quale sarà stata il primo Novecento senza le grandi guerre. L’alter ego Joe Chip scompare nel 1992 e si ritrova nell’America degli anni 1930. Si scruta il futuro perché il presente non è presentabile – non che il futuro sia rassicurante. Dick avrà negli anni più tardi una fase mistica, ma il senso religioso, il cristianesimo, il cattolicesimo, è “precognito” in lui – una sorta di Chesterston del secondo Novecento in California, nell’età e nel luogo della dissoluzione di ogni fede.   
Dick al suo meglio, nell’uso dell’arsenale linguistico e topologico della fantascienza per narrare se stesso – il Joe Chip squattrinato, solitario, disordinato e sporchetto, che però ha un talento, e si salverà, a dispetto di tutte, e anche di tutti – e l’epoca, disimpegnata e (ma) acquisitiva. In una ubiqua dissoluzione, se il mondo è delle cose.
Philip K. Dick, Ubik, Fanucci, pp. 229 € 9,90

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