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venerdì 5 ottobre 2018

Quanto Pasolini era in Ortese

L’esordio è esilarante: una cosmogonia completa, persuasiva, buona per ogni fede e ogni miscredenza, in poche righe: “A cosa corrisponde per me la parola «natura»? A una forza e a un respiro grandiosi, a un vento senza origine, a un ritmo senza riposo, come quello del mare, a una corrente fantastica, incomprensibile,  di cui a ciascuno di noi non è dato scorgere che un punto, quello dove si affaccia, per subito sparire, il suo «io», o qualcosa di ugualmente inesplicabile”.
Sul fondamento di una gnoseologia inappellabile. “La Terra, e l’Universo, e  le loro leggi segretissime e comportamenti di ogni genere, NON CONOSCONO L’UOMO, e l’uomo – davanti a queste cose – è solo”. Negli spazi cosmici, poi, la terra, questo gioiellino, non è neppure sognata, non esiste, per quest’altra ragione: che non vi sono occhiali, nell’universo, capaci di vederlo – l’uomo”. Da qui la deiezione degli animali e degli esseri inanimati: l’uomo si è fatto inumano nell’inumano universo.
Una proposizione del mondo, e degli uomini nel mondo, vertiginosa. Non a caso si è conquistata una pagina di “Tuttolibri, il numero del12 febbraio 1984, punto focale di una rassegna di scrittori sul rapporto con la natura.
Le Piccole Persone sono gli animali. La raccolta è una sorta di edizione critica, col recupero di alcuni (pochi) testi già pubblicati, e altri più numerosi del lascito che si presumono inediti, sui temi dell’ecologia, che Ortese ha anticipato di decenni. Della compassione universale, estesa agli animali e alle cose, e della protezione. Testi tutti nuovi rispetto alle due maggiori bibliografie esistenti di Anna Maria Ortese, quella curate da Luca Clerici e quella di Giuseppe Iannaccone.
Angela Borghesi, che ha compilato il volume sulle carte della scritrice all’Archivio di Stato di Napoli, la completa con note ai singoli testi, e con un saggio, “Dio nelle ciliege”, recuperato da “la realtà del Dio che abita nelle ciliege” (“Io credo in questo”, p. 42), che situa Ortese caratterialmente e stilisticamente (con un incongruo accostamento a Mahler, al Maher di Bernstein - molto resta da scoprire ancora di Ortese). Centrato sull’animalismo della scrittrice, esemplato su una lettera da lei indirizzata a Ceronetti l’8 febbraio 1983. Ma la sensibilità è preesistente, già degli anni 1940. Da sensitiva del dolore universale, e più degli animaletti indifesi, formiche, farfalle, lucertole, pipistrelli, il sorcio in bocca al gatto, da sempre. In un articolo per “Il Mattino”, l’8 novembre 1950, già scriveva: “Io ero al corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature allorché vengono catturate”.
Heideggeriana senza saperlo, cioè più profondamente  - “autenticamente” nel gergo del Mago (Boghesi ne sottolinea il rapporto con Simone Weil, in una prospettiva sororale, unitamente con Elsa Morante, della “pésanteur” riletta accortamente come “forza di gravità”, in un breve scritto intitolato “Libertà”): “L’universo degli oggetti si è costituito come – da principio dichiaratamente – universo spirituale”. Per la rivoluzione industriale, “chiaramente una catastrofe”, che ha oscurato “la luce dei miti”, quel poco che “«illuminavano»” ieri, “nelle età cosiddette d’oro”.
Visionaria a volte, di linguaggio biblico, ma argomentata. A volte la natura già deprecata diventa bella-e-buona per sé, anche il pastore tedesco Ray che a Capocotta ha sbranato il bambino che custodiva. Ma ragionevole, ecologista non anti-umanista, le invettive alternando alle “reverenze”: “L’animale-uomo ha compiuto  cose che la natura che lo ha partorito ignora e subisce”. E “nessuno degli animali che conosciamo ha affermato il principio della pietà, come l’animale–uomo. La natura conosce soltanto il principio dell’amore in quanto partecipazione di un godimento, e di fronte al dolore ritorna indietro. Ma per l’uomo non esistono limiti, e anche il dolore e la morte egli ha superato con la pietà e la speranza”.  
Al terzo “pezzo” della raccolta, “Uomini e cose” (“Corriere di Napoli, 3-4 settembre 1951) , Ortese sale ancora di un gradino. Concludendo a un’altra evoluzione, intelligente, comunque consapevole, per lo “spirito” che anima l’uomo. Per l’intelligenza della evoluzione stessa. Non c’è altro essere nemmeno lontanamente altrettanto inventivo, costruttivo. “Su una speranza ignota a qualsiasi altro essere vivente”. E non è tutto. “Luoghi e cose” sono “una possibilità”, “in cui la ragione meccanica non abbia più parte, così come tutte le lampade diventano invisibili, anche se nessuna mano le spegne, all’apparire meraviglioso del giorno”.  
Una scrittrice pasoliniana, con gli stessi slanci e furori. Senza lo scandalo. E con capacità autocritica: “Il mio carattere è cattivo, non è buono, non è tenero, e subito, quando incontro presunzione e vigliaccheria che entrano come padroni nel territorio dell’innocenza e della debolezza, vorrei prendere le armi, vorrei prendere una scimitarra, e far cadere delle teste infette”. Ma ugualmente inerme – “”ma mi trasformerei in uno di loro”, i presuntuosi, “e dunque, via il desiderio”. delle armi. E con la stessa capacità critica e profetica. Emarginata probabilmente perché non “in linea” con la “cultura” della Prima Repubblica.
Un altro pezzo del secondo Novecento che riemerge consistente, dopo il crollo della Grande Bonaccia co(mi)nformista. Il Bel Paese che ha perso la facoltà di ammirare potrebbe essere stato scritto adesso. Un testo “storico” sulla non-identità dell’italiano, scritto per il “Corriere della sera” il 19 maggio 1970, in anteprima di vent’anni sul leghismo, avrebbe potuto firmarlo Pasolini - e questo è inquietante.

Anna Maria Ortese, Le Piccole Persone, Adelphi, pp. 271 € 14

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