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sabato 6 ottobre 2018

L'antropologia della droga


Aria fritta, ieri e oggi. Giusto per “liberare” il trip in Messico, fra le droghe tradizionali – siamo negli anni 1960. Popolare, ieri e oggi, se si ristampa in grandi numeri. Perfino nobilitata accademicamente: la riedizione si avvale di una prefazione di Walter Goldschmidt, dell’avallo cioè di uno degli antropologi americani più in vista del secondo Novecento – e allora qualche domanda bisognerebbe porsi sull’antropologia.
Castaneda, a lungo senza volto e senza identità, è un scrittore peruviano. Con una laurea in filosofia presa negli Usa, prossimo ai 40 anni, dopo cioè il successo come scrittore. Debuttò felicemente proprio con questo libro, nel 1968, e da allora il mistero sulla sua persona fece parte del suo successo. Castaneda è stato un fenomeno editoriale, costruito per essere tale dopo questo “Don Juan” –
La civiltà tolteca misterica di cui sarà teorico scoprì, a sua detta, nel 1960, studente ventisettenne dell’università di California a Los Angeles, incontrando in Arizona uno stregone messicano, don Juan, di etnia yaquì. Don Juan lo inizia ai misteri dell’antica stregoneria messicana, e agli stati di coscienza alterati che varie sostanze allucinogene dell’altopiano inducono.
La ricetta di don Juan è semplice: niente esiste se non ha un cuore. Castaneda sarà l’aedo del cuore. Avendone uno, si arriva alla verità, col “mescalito” (peyote), o anche coi funghi allucinogeni, la datura, o altre sostanze.
Dopo il successo di questo primo libro, un altro paio sono seguiti con lo stesso personaggio, poi Castaneda ha autorevolmente professato in proprio.
Il tutto è riducibile agli “studi” in quegli anni sugli effetti dei funghi e le erbe con proprietà psicotiche. Patrocinati dall’industria farmaceutica svizzera, dalla Ciba e, di più, dalla Sandoz. Che patrocinò e finanziò i funghi e gli sciamani di Castaneda, nonché il poeta Michaux, e il chimico Albert Hofmann per gli assaggi che faceva con Jünger. Al fine di creare sostanze per la mutazione delle coscienze sul modello di Eleusi, dove il fluido iniziatico si estraeva dalla segale cornuta. Ne era nata l’Lsd.
Provare la droga era negli anni 1960-70 un revival dell’“esperienza” europea un secolo prima, di Baudelaire, Nerval, il maledettismo. Nel quadro di un revival più ampio, di invenzione della tradizione. Ci avevano provato nel frattempo, per curiosità, Benjamin e Aldous Huxley. E per consumo privato, o modica quantità, per passatempo, o per “fare esperienza”, innumeri scrittori, da D’Annunzio fino a Elsa Morante – alla quale si devono due poesie nel nome dell’Lsd, “La sera domenicale”, “La smania dello scandalo” (edite sotto il titolo “Il mondo salvato dai ragazzini”).
Castaneda si reinventa lo sciamanesimo. Gli “Insegnamenti di don Juan” ha anche il titolo “A scuola dallo stregone. Una via Yaquì alla conoscenza”: un percorso di iniziazione allo “sciamanesimo mesoamericano”. Una ripresa, dopo trent’anni, della “nuova via della conoscenza-percezione” di Aldous Huxley. Di nessun fondamento etnologico. Già nel 1968 un tentativo di accreditare per viva una tradizione non da poco perenta. E  tuttavia pietra miliare degli “studi” dello stesso sciamanesimo.
Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan, Bur, pp. 273 € 10

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