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sabato 14 novembre 2020

Il mondo com'è (414)

astolfo
 
America tedesca – Ci fu a fine Settecento la possibilità, non remota, che gli Stati Uniti indipendenti nascessero tedeschi: la comunità tedesca era la più numerosa dopo quella inglese, ma era più attiva e organizzata, e più urbanizzata. Ovunque s’incontrano tuttora –man, –burg e -ich, e le case col tetto spiovente che fanno Germania attorno a Filadelfia, cuore della nazione, tra Harrisburg e Gettysburg. È tedesca pure Yorkville a New York. Dietrich è il cognome più diffuso, con Hoffman, con una e due -n. Eisenhower si scriveva Eisenhauer, Smith spesso Schmidt. È tedesco, postnomadico, l’uso americano di cambiare i mobili ogni tre anni, magari per ricomprarli uguali. E il coniuge, seppure non con la stessa frequenza. Quentin Tarantino ha avviato il riconoscimento col dottor Schultz, il virtuoso cacciatore di taglie di “Django unchained”, e l’eroina Brunhilde che parla tedesco.
Furono i soldati tedeschi di re Giorgio, i reggimenti dell’Assia, a propiziare a Trenton nel New Jersey la prima vittoria e il carisma di Washington. E fu per una decisione a suo tempo minoritaria, com’è noto, che l’America parlò inglese e non tedesco. I tedeschi si distinguevano anche per qualità degli insediamenti, oltre che per essere numerosi. In America più che in ogni altro posto, dice Kant nell’“Antropologia”, i tedeschi emigrati si sono distinti per formare comunità nazionali “che l’unità della lingua e in parte anche della religione trasforma in una specie di società civile che, sotto una superiore autorità, si distingue nettamente dagli insediamenti di ogni altro popolo per la sua costituzione pacifica e morale, l’attività, il rigore e l’economia”. Un commento che si penserebbe indirizzato ai tedeschi di Russia (del Volga), di Romania (del Banato, capitale Timisoara), di Praga e la repubblica Ceca (Sudeti). Ma “questi sono gli elogi”, concludeva Kant, “che gli stessi Inglesi fanno dei Tedeschi dell’America del Nord”.
 
Disoccupati organizzati – Sono una parte di Roma a Napoli. Si dice che Roma è sempre sul filo di diventare Napoli, caotica e ingovernabile, in questo caso avviene l’inverso:  anche i disoccupati organizzati vengono dall’antica Roma. Le folle di nullafacenti, mantenute dallo Stato e dalle famiglie abbienti, che ritenevano loro diritto lamentarsi, protestare, e rubare, da soli o in bande.
 
Egidio da Viterbo – In una delle lezioni tenute a Milano nella primavera del 1985, raccolte in “Dietro l’immagine”, Federico Zeri si dice sicuro che i soggetti della Camera della Segnatura e della Cappella Sistina non sono di Raffaello né di Michelangelo, che, benché persone di cultura, non possedevano le chiavi, storiche, mitologiche, filosofiche, teologiche, oltre che bibliche, di tutti i soggetti che hanno rappresentato. Le chiavi non erano neppure del committente, papa Giulio II, affaccendatissimo, oltre che nelle committenze, architettoniche, urbanistiche, pittoriche, anche in guerre e complicate diplomazie. Zeri opina che fossero invece di Egidio da Viterbo, un agostiniano di cui s’è perduta la memoria – eccetto che nella chiesa di S. Agostino a Roma dove è sepolto – ma personaggio ai suoi anni di grande rilievo (l’ipotesi di Zeri peraltro era stata avanzata già dal gesuita Heinrich Pfeiffer nel 1972 - altri avevano ipotizzato un ruolo di Tommaso “Fedra” Inghirami).
A Viterbo, sede allora mezzo papale, aveva potuto fare nel convento agostiniano della Santissima Trinità, nel quale era entrato nel 1488, studi di filosofia, teologia e lingue antiche, come allora usava, in chiave umanistica, per poter accedere alle culture classiche – gli si attribuiscono studi di greco, ebraico, aramaico, persiano, arabo. Peregrinò e insegnò poi in vari conventi dell’ordine, ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Napoli, di nuovo Viterbo, e in Istria. Filosofo, appassionato di lettere antiche, frequentò a Padova Pico della Mirandola a Firenze Marsilio Ficino, a Napoli Giovanni Pontano, e fu in frequente corrispondenza con loro. Fu anche oratore efficace, incaricato da Alessandro VI, Giulio II e i due papi medicei, Leone X e Clemente VII, delle prolusioni in occasioni speciali. Tra esse l’inaugurazione del Quinto Concilio Lateranense nel 1512, e nel 1530, nel concistoro di novembre, sulla necessità di una riforma della chiesa – il concilio di Trento sarà convocato quindici anni più tardi, da Paolo III, sui principi da lui espressi in concistoro.
Fu soprattutto famoso al suo tempo, e resta negli annali, quale rigido critico dell’averroismo e di Aristotele. Fin dagli anni di Padova, la sua prima destinazione fuori Viterbo, nel quadriennio 1490-1493. Fu in con confidenza con Pico della Mirandola, dilettandosi anche lui di astrologia e cabbala. E vi curò una riedizione dei commenti aristotelici di un altro Egidio agostiniano, Egidio Romano, o Egidio Colonna – discepolo di san Tommaso d’Aquino a Parigi, dove anche lui poi insegnò, generale degli agostiniani, precettore di Filippo il Bello e arcivescovo di Bourges (cioèBruges). Egidio da Viterbo usò il commento per un attacco frontale al razionalismo aristotelico. A  Firenze, subito dopo, frequentando Marsilio Ficinio, approfondì il neoplatonismo, che trovava consono più consono alla tradizione cristiana, e alla lettura di sant’Agostino. Il suo opus magnum, rimasto incompiuto, intitolava “Commentaria sententiarum ad mentem et animam Platonis”.
Fu anche diplomatico papale in varie occasioni, e cardinale dal 31 ottobre 1517. Era anche all’epoca superiore generale degli agostiniani, e in questa veste quattro mesi dopo, il 31 ottobre, Martin Lutero rese pubblica la protesta, con l’affissione delle 95 tesi sulle porte della chiesa di Wittemberg – ma il gesto fu molto meno drammatico dei suoi sviluppi. Fu noto, oltre che come oratore, per essere un gran lettore. Uno che voleva approfondire le sue letture, e per questo intensificava lo studio delle lingue. Gli si ascrive la lettura in aramaico di molte parti della Bibbia e del “Talmud”, in arabo del “Corano” e di Averroé, di Avicenna in persiano, della “Torah” in ebraico. Nel tentativo di collegare le altre culture al filone cristiano.
 
Hitler-Vaticano – Non si risolve la questione se Pio XII, papa Pacelli, benché sulla via della santità, non abbia favorito Hitler, col concordato del 20 luglio 1933 – sottoscritto col cattolico centrista von Papen, che lo aveva negoziato e firmava su incarico del presidente tedesco Hindenburg, ma cancelliere era già Hitler – e col silenzio in guerra. Ma Hitler disprezzava i preti e le gerarchie cattoliche, da cui era disprezzato, ed era solo temuto in Vaticano, e da Pacelli papa più che da ogni altro, avendo egli conosciuto la Germania di Hitler di prima mano come nunzio. Mentre Hitler, soprattutto mentre varava la “Soluzione Finale”, diffidava del Vaticano.
Quando il fascismo mediterraneo aprì in Germania, anzi proprio a Berlino, a fine 1942 – il mondop era allora del Reich - l’istituto Studia Humanitatis, con un’orazione del professor Riccobono in latino, Goebbels minacciò di togliere la luce: “È evidente che gli italiani stanno tentando di accampare diritti al predominio spirituale in Europa”. E Rosenberg scrisse l’epitaffio: “È passato il nemico. L’Istituto Studia Humanitatis è una longa manus  del Vaticano”.
 
Leonardo – È ultimamene “materia” dei Modestini, restauratori. Esperti evidentemente  attribuzionisti, ma di professione restauratori. Dianne Dwyer Modestini, la restauratrice che ha scoperto e riportato alla luce, con un’opera paziente, il “Salvator Mundi” di Leonardo, è la vedova di Mario Modestini, romano, il principe dei restauratori del Novecento, morto nel 2006 a 99 anni.
Il “Salvator Mundi” ha registrato nel 20017, venduto da Christie’s, il record di valutazioni di un bene artistico, 450 milioni di dollari. Pagati da un principe saudita, Badr ben Abdullah, figlio dell’ex re. Probabilmente per conto del cugino e principe ereditario Mohammed ben Salman. Da allora non è stato più visibile – si dice adorni lo yacht del principe ereditario. Ma l’attribuzione è sempre più contestata da molti studiosi di Leonardo.
Mario Modestini si era reso celebre per l’autentica di un altro Leonardo, l’ultimo accettato universalmente come opera di mano di Leonardo, la “Ginevra dei Benci”. Un ritratto, messo in vendita dai principi del Liechtenstein fra i tanti del loro magazzino. Da lui esaminata e autenticata, e anche personalmente comprata, per conto dei banchieri Mellon, per cinque milioni di dollari, e trasportata a Washingotn, alla National Gallery – la “America’s Mona Lisa”.   
Era un predestinato, essendo nato a Roma, nel 1907, a via Margutta, la strada allora degli studi d’arte. Lavorò molto in Brasile e in Toscana, stabilendosi poi a Rignano sull’Arno. Nel secondo dopoguerra lavorò soprattutto negli Stati Unit, restauratore
in residence della Kress Foundation, che gestiva una collezione ricca di duemila opere, anche di Tiziano, Bellini, Van Dyck, Tintoretto, Canaletto, Tiepolo, Rubens, El Greco, e di van Gogh, Manet, Monet, Cézanne. Richiesto per expertise  e restauri da vari musei e collezionisti americani. Per Kress Foundation ha individuato un Greco che l’esperta del pittore spagnolo, Eleanor Sayre, non riconosceva. La collezione Kress era opera di Samuel Henry Kress, magnate del minuto commercio – un ex minatore che s’inventò una catena di negozi five and ten, dove cioè si vendevano solo oggetti da 5 e 10 centesimi di dollaro.
Zeri lo ricorda, in “Dietro l’immagine”, le sue lezioni milanesi sull’“arte di leggere l’arte”, nella lezione sui falsi, come quello che gli consentì di smascherare falsi complicati, difficili da individuare.
Provvide personalmente anche al trasporto del ritratto di Leonardo da Zurigo a Washington. Su un aereo Swissair, prenotato in prima classe per “Sig. e Sig.ra Modestini”. La “signora” era il ritratto, rinchiuso in una valigia che lo stesso Modestini aveva progettato, che simulava la temperatura e l’umidità della can ina dei duchi, dove il quadro era immagazzinato, per il tempo di dodici ore, la lunghezza del viaggio, dopodiché approdava in una ambiente della National Gallery con la stessa temperatura e umidità. La “signora Modestini” viaggiò non solo rinchiusa ma anche ammanettata al restauratore.

Nave dei folli – “Narrenschiff”, la nave in cui Sebastian Brant a fine Quattrocento rinchiuse nel poema omonimo 111 folli in viaggio verso il paese di Cuccagna, era il Parlamento nel linguaggio corrente dell’esercito austro-ungarico fino alla Grande Guerra.

astolfo@antiit.eu

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