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giovedì 23 febbraio 2023

Gli affari dell’antimafia

“Imprenditore onesto denuncia la mafia, e muore di interdittive antimafia”. È una delle storie del libro: un imprenditore di Gela, in rapporto tradizionale di lavoro con le grandi imprese nazionali, Eni, Anas, Ferrovie, etc., “nel 2007 ha denunciato il pizzo e fatto condannare i mafiosi” che lo pretendevano, “ma è rimasto per anni nel mirino di una procura che lo riteneva complice”. Che non lo ha processato per questo, lo ha sottoposto a “interdittiva antimafia”. Senza contraddittorio. Cioè al sequestro, poi confisca, di tutti i beni, aziendali, immobili, mobili. Ha reclamato, si è agitato, e niente, l’interdittiva non è contestabile, il prefetto non sta sotto la legge. Solo dopo che l’imprenditore si uccide, nel 2017, undici anni dopo il furto di Stato, il Tar del Lazio gli dà ragione.   È una delle tante storie qui ricostruite. La prima è di un errore (della Guardia di Finanza) che non è un errore, lo scambio di un indirizzo per un sopralluogo mai fatto – neanche dopo, nelle more dei sequestri e le confische.
Un libro di cronache giudiziarie che si legge come un noir. Altrettanto avvincente, e violento. Sulle malefatte, nientemeno, di prefetti e procuratori della Repubblica. Sotto la copertura dell’antimafia. Dedicato “alla memoria di Leonardo Sciascia”, che s’immagina, con sofferenza, anche lui concorde, sui “professionisti dell’antimafia”, una professione già forte ai suoi tempi. Senza che da allora nulla sia cambiato, anzi questa antimafia perversa si è impadronita di ogni ganglio del Sud, che non respira più. Il tema è: “Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. Con una mezza dozzina di soprusi, ai danni di imprenditori e imprese, da lasciare a bocca aperta: depredati di tutto, spesso carcerati, per poi, quando un giudice finalmente si trova, essere assolti. Vittime non di “errore giudiziario” ma della prassi – delle carriere dei giudici.
I casi ricostruiti da Barbano sono specifici, ma il contesto e il contorno ne fanno un “sistema”. Per cui basta niente, anche solo una chiacchiera, per essere accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e quindi depredati di tutto dallo Stato con le interdittive prefettizie. Atti d’arbitrio, sequestri e confische, senza aspettare un giudizio. Qui i prefetti sono celerissimi, che nominano fidati amministratori giudiziari a duecento e trecentomila euro l’anno, a spese del malcapitato. Svelti in questi casi anche i procuratori - con i loro comodi gip: ogni Procura antimafia ha il suo gruppetto di giudici delle indagini preliminari fidato, non c’è memoria di una procedura antimafia non avallata da un gip.
Una inchiesta inquietante. Anche per il silenzio che la avvolge. Malgrado l’avallo di importanti giurisperiti, l’ex ministro della Giustizia Flick, l’ex presidente della Corte Costituzionale Amato.
Un libro di lettura, quasi un romanzo, che tocca evidentemente un nervo sensibile, poiché non se ne parla: i media convivono con questa antimafia, prodiga di scandali, intercettazioni, e insospettabili “mafiosi”.
All’affollata presentazione all’Auditorium di Roma una sola voce si era levata a difendere gli attuali assetti della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia - che peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano, allora direttore de “Il Mattino”, il giornale cittadino,  per una migliore giustizia. Solo critiche, aspre. Giuliano Amato, presidente uscente della Corte Costituzionale, che aveva varato trent’anni fa le prime leggi speciali contro la mafia, se ne diceva pentito. Essendone nato un apparato burocratico, politico e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli di legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”. Paolo Mieli, che pure da direttore del “Corriere della sera” aveva condiviso alcune delle più efferate intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denunciava un “lockdown giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud: “Come mai”, si chiedeva Mieli, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il Procuratore Antimafia, “la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a contestare il libro di Barbano?”
Barbano, che il Procuratore Antimafia Melillo aveva detto “un estremista”, poteva spiegarsi così: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?”
Barbano, che il Procuratore Antimafia Melillo aveva detto “un estremista”, poteva spiegarsi così: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?”
Barbano solleva anche il caso inquietante dell’amministrazione. Che ha superato gli arbitri del fascismo - il confino senza condanna, la residenza obbligata, la perdita dei diritti. Con lo scioglimento arbitrario dei consigli comunali, la grande occupazione (moltiplicatrice di commissariamenti e prebende) delle Prefetture. Con le interdittive antimafia – non c’è bisogno di giustificarle. Con indagini sui propri personali nemici, di giudici e investigatori, o degli informatori: indagini mirate, estenuanti, a strascico, per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione - come si fa nei social. Vittime troppo spesso sindaci e amministratori (il caso che Barbano racconta del presidente della Regione Calabria Oliverio è drammaticamente da ridere), a opera di giudici di opposto colore politico. Senza scandalo.
E senza eco: silenzio. Barbano, giornalista importante, che da direttore del “Mattino” ha provato a disboscare questa giungla, scrive quasi come da bottiglia buttata a mare: troppi gli interessi facili incrostati in questi abusi. Conscio cioè che le false argomentazioni che reggono questa falsa antimafia sono irrobustite da interessi diffusi, specie nel “terzo settore”, del “volontariato” – solo “Libera”, l’associazione di don Ciotti, ha un network di 1.600 associazioni e cooperative di gestione di beni sequestrati. E dalla rete poco nobile degli amministratori giudiziari, che si diventa per chiama a diretta, di un prefetto o di un giudice. Le interdittive sono infatti provvide di ricchezze, anche enormi, alla foltissima schiera dei curatori giudiziari, coi i loro referenti istituzionali, prefetti e giudici delle “misure di prevenzione”. Nonché al “volontariato” antimafia.
In pochi anni, poco di un decennio, il patrimonio gestito da questi tribunali senza condanna, spesso senza nemmeno un’accusa documentata, è incalcolabile. Ed è una grande forma di distruzione di ricchezza – se non per i beneficiari, i curatori. Curatori della distruzione. A metà giugno 2022 le aziende confiscate o sequestrate e assegnate a curatori giudiziari risultavano 2.245, ma solo 145 erano ancora attive, le atre 2.100 erano morte.
Sono tutte, Barbano non lo dice ma si sa, aziende del Sud. Si pensa il Sud vittima della mafia, e in molte parti lo è, ma ovunque è vittima dell’antimafia: niente di buono vi è possibile, se non per caso. Per essere sfuggiti alle informative raccogliticce dei Carabinieri, di norma curiosamente sfavorevoli ai denuncianti, ai “pentiti” in cerca di pensione pubblica onorevole, e ai disegni dei Procurato
ri della Repubblica che da trent’anni sono i padroni dell’Italia, indisturbati – cui i giudici indifesi delle indagini preliminari, prudenti, si accodano. I “professionisti del bene” sono probabilmente la parte meno losca di un sistema giudiziario inquinato. Di cui la politica è succube. Barbano apre la sua narrazione con il varo nel giugno del 2017 della legge 4.360, la “legge Orlando”, “un solo lungo articolo suddiviso in 95 commi” – Manzoni impallidirebbe – che allunga la prescrizione e inasprisce le pene per i delitti di mafia, estendendole alla corruzione. Un uso talmente arbitario della giustizia, a opera di un ministro di sinistra, anzi dell’ultra sinistra, che Mussolini avebbe avuto pudore a imporre per legge: confische e sequestri sono da allora possibili, e sono stati applicati, per semplice sospetto di reato. Non solo di mafia, anche di corruzione, e di peculato anche di modesta entità.  
Alessandro Barbano,
L’inganno, Marsilio, pp. 249 € 18

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