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giovedì 24 aprile 2008

La bugia, senza ironia, nell'età dell'ipocrisia

La verità è a pagina 83: “All’ironia ormai appartiene il segnale d’ironia”. Per l’appiattimento dell’espressione. Lo stesso per la bugia, nell’appiattimento dell’etica – siamo tutti incolpevoli, ancorché assassini. Si è astuti oggi per non essere astuti, anzi per pretendere candore. Questo libro di quarant’anni fa è dunque inutile, per essere onesto vecchia maniera, in cui la verità corrisponde all’asserzione. Per giungere all’ovvia conclusione che l’inganno non è nella lingua, ma nell’uso che se ne fa. L’ironia – la bugia simpatica, spiritosa, acuta – non è capita né tollerata: “Esistono diversi tipi di segnali d’ironia. Ci può essere la strizzatine d’occhio, lo schiarirsi la voce, un tono enfatico, una particolare intonazione, un insieme di espressioni ampollose, metafore audaci, frasi lunghissime, ripetizioni, oppure – nei testi stampati – l’uso del corsivo e delle virgolette”.
Il volumetto ha due sottotitoli. “In difesa dell’innocenza delle parole” è meritevole. L’altro, quello della copertina, “Possono le parole nascondere i pensieri?”, pone a risguardo gli avvitamenti della linguistica – “quali” pensieri, le parole ne dicono tanti? Domina l’infinita rincorsa definitoria delle scienze del trivio, per cui quando si è arrivati si è al punto di partenza – una partita che fosse tutta nel pre-riscaldamento. A p. 28 “il contesto definisce. Fissa cioè il significato”. Ma il contrario è più vero. Non solo nel caso di un’oratoria o retorica, sia essa scritta o verbale, che fa il contesto: il significato delle parole, la sfumatura, fissa il contesto. O la posizione della parola nella frase, o la grafica: se è tra parentesi, tra virgolette, anticipata, posticipata. O nella parola parlata il tono, il tempo, la velocità di pronuncia, la pronuncia corretta, oppure deformata, o magari solo esageratamente corretta. Si sa da Wittgenstein che la lingua è travestimento del pensiero. Col noto corteggio di “traduttore traditore” e “le parole tradiscono il pensiero”. Il pensiero che esiste solo in parole... Il pensiero senza la lingua è debole e incerto, si fa definitivo, si dice per dire, quando è messo in parole. Parlando, più ancora che pensando, mettiamo in moto il più complesso sistema d’equazioni, oscurando ogni altro gioco scientifico, in termini di ipotesi, verifiche, falsificazioni, all’istante.
Per il lettore un’altra conclusione è ovvia, dei limiti della semantica, o linguistica testuale, analoghi a quelli dell’antropologia strutturale, di dire come nella lingua tutto sia collegato: la parola è pensiero e atto, imprendibile, prima del vocabolario, con e senza contesto, lo scarto è la sua regola e non un residuo. Si può scendere anche alla dissociazione, all’oggettivismo di Musil e dell’École du regard, ma il risultato non cambia, non semanticamente, è quell’occhio asettico la novità (verità) della cosa, la retorica. “Perfino un cane”, Weinrich fa dire a Musil, “è già difficile da immaginare, perché è solo un accenno a vari cani e qualità canine”. Ma Musil lo fa dire all’“Uomo senza qualità”, senza immaginazione, per il quale è solo vero che non c’è l’idea di un cane senza un cane, e non viceversa. Per il bambino fino ai 18-24 mesi il cane è un “bau”, e ha altre “qualità canine”, la coda, le orecchie, il pelo, le quattro zampe, ma è già un cane, e non altro. E cosa sono le lingue? Sono davvero così diverse, e intraducibili, se sono sistemi di segni?
La linguistica ha con le parole lo stesso rapporto che la metafisica con l'essere nell'obiezione di Hobbes a Cartesio: con il "cogito" uno di se stesso dovrebbe dire non "io passeggio" ma "io sono una passeggiata"... La linguistica è uno strumento, questo sì, se non si erge a scienza, un contributo alla ricerca, che necessariamente è inconclusiva. Come la stessa definizione, il concetto, il contesto. Tutti paradigmi che, peraltro, non differiscono per la nazionalità. Dice Weinrich, p. 43, che febbre non è fever, e non è fièvre, e invece lo è. “Come concetti sono identici”, dice Weinrich. Ma non ci sono residui.
Si può concordare che in questi quarant’anni la ricerca della verità delle parole non ha fatto molta strada. Anzi nessuna, come già nei precedenti duemila anni. Mille e cinquecento per l’esattezza, il problema essendo all’origine etico e di speciale preoccupazione per gli esegeti cristiani, a partire da sant’Agostino. È questione di verità (santità) e non di conoscenza. Anche di santità laica: la più nota verità, la “Prava”, non ne conteneva per nessuno, nemmeno per Stalin che la dettava. E a volte è vero il falso, come nel paradosso di Epimenide cretese. Cos’è linguisticamente la verità delle parole? Il vocabolario? L’etimologia (soldi e pastorizia, sesso e soldi, etc.?)? Né il Battaglia né il Devoto recuperano tutte le variazioni delle parole, che sono infinite.
Weinrich tiene conto nella postfazione, tra i filosofi politici, di Hannah Arendt. Ma non di Koyré, lo studioso di Galileo e del razionalismo, il cui “Epimenide il bugiardo” era peraltro anteriore di un ventennio, e resta il classico della menzogna, insorpassato anche storicamente, che però non si ripubblica. La verità è che il libro è superfluo perché bisogna essere bugiardi sempre, senza ironia, nell’età dell’ipocrisia. Che può essere velata (nel salotti di Vespa, Lerner) oppure greve (Santoro), ma sempre si pretende politicamente corretta. L’ipocrisia è connaturata alla borghesia, si sarebbe detto un tempo. Oggi, che è vero, non siamo nell’epoca del mercato? della globalizzazione? dell’arricchitevi?, non si può dire. Non si può dire a sinistra, mentre a destra ridono e irridono. Non si può dire in Europa, mentre in America, e in Cina, si spanciano. La bugia, che non è materia di linguistica, può essere sicuro criterio di geopolitica.
Harald Weinrich, La lingua bugiarda, Il Mulino, pp.128, € 9

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