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lunedì 27 settembre 2010

Il mondo com'è - 46

astolfo

Borghesia – Si è annessa la libertà (mercato, concorrenza, innovazione) mentre è solo il ceto degli affari. Che si fanno normalmente (tendenzialmente) a danno degli altri. Solo la legge può garantire il mercato. E quindi (posto che il mercato la favorisca, ma anche senza mercato) la libertà.
In Italia manca, si dice. Lo dicono i borghesi, ma è vero: non si leggono libri, non si comprano giornali, non si discute, non si conversa, non si comunica. Ma che c’entra tutto questo con la borghesia? La borghesia, anche in Francia dove si legge molto, e in Germania, anche in Inghilterra o negli Usa, si occupa di affari. Suo compito è di farli bene, nel senso di far crescere la ricchezza. Se trovasse un affare, cioè uno stimolo, intellettuale o spirituale nella cultura in Italia e lo trascurasse, allora sarebbe colpevole. Ma lo trova? È tuttavia vero che la borghesia manca, in due modi. Numericamente, essendo un paese di microimprenditoria e di self-made men, è piena di baüscia strillanti e lagnosi e non di uomini e donne d’affari. Qualitativamente, essendo i valori privilegiati quelli dell’arricchimento, che non fanno la borghesia.
Si caratterizza la borghesia con Marx, per il gusto al comando, seppure democratico. Mentre è fatta di scettici che non si riconoscono, e quindi disfattisti, catastrofisti. Esempio: Manzoni. Tipicamente cioè si nega. Questa è la borghesia contemporanea, di quando ha usato dire “è borghese”, che vaga senza ruolo e senza potere. Il borghese classico, quello di Marx, naturalmente è l’opposto: sempre scettico, detto anche protestante, e uno che anzi fa professione di non avere fede nelle opere, ma attivissimo, poiché il risultato delle sue opere, la ricchezza, prende per grazia di Dio.
Dopo Marx s’intende d’altra parte borghese uno sfruttatore conservatore. E piccolo borghese il frustrato, golpista, fascista. Ma è una distinzione che non funziona. Non funzionano (non sono vere) neanche le qualifiche. Il borghese non è – non per definizione – un conservatore. Il proletario per dire, se esiste, lo è di più. Il piccolo borghese è sicuramente un frustrato (isolato, insicuro) ma nelle stragrande maggioranza (Pensionati, casalinghe, artigiani) è progressista, legge “Repubblica”, guarda Rai tre, vota Democratico.
La distinzione più proficua, che spiega anche perché tanto accanimento politico è stato inutile,
è fra il borghese neo aristocratico, quello del “segmento del lusso” in termini commerciali, e il piccolo borghese accumulatore sterile. Il borghese perde, spesso, ciò che ha. Ma accumula cultura: memoria, linguaggio, buongusto, tolleranza, socialità. Il piccolo borghese vive solo la dimensione quantitativa del denaro (comprare, accumulare, o anche solo arrivare a fine mese), e quindi la soffre. Vuole piantare paletti e piloni di sicurezza, ma è irretito dalla precarietà e dalla povertà relativa.
La povertà relativa è ambigua, ma il piccolo borghese non lo sa pensa sia suo dovere sfidarla. E cioè perdere. La strumentazione depressiva è feroce, da circolo vizioso. Il piccolo borghese si differenza dal borghese, è cioè insicuro, vociferante, piagnone, protestatario, asociale, perché manca di strumenti e spessore culturale, conoscitivo, cognitivo. Che non apprezza – o non può permettersi, essendo impegnato a comprare cose.

Capitalismo – Farlo protestante, anzi meglio, calvinista, come vuole la vulgata italiana, è un’ingiuria a Calvino. Per il quale la grazia è una segno d’illuminazione religiosa, non una certificazione degli affari.
È anche proiettare all’indietro una situazione eminentemente vittoriana. È solo nella cultura vittoriana – anglicana, episcopaliana – che la religione si esprime nei valori sociali: moralismo, pruderie, colli alti, mutandoni al ginocchio, e le tendine alle finestre. Alta moralità significava elevata socialità, quindi buona borghesia. Dio era allora un notabile, e che di meglio per rappresentarlo di un protestante britannico, uno che governava le onde?

Città – Se la città era il luogo della sicurezza e vita facile (il piacere, il consumo, l’esibizione, e tempi di lavoro ordinati), ora che non lo è più perché non viene abbandonata? Perché è ora il luogo del challenge, che spesso è solo durare – giusto per tenere in scacco la nevrosi e il sangue marcio, il più a lungo possibile. È in questo la stupidità del’epoca, non nel neo scientismo.

Colonie – Sono un imprinting, per quanto poco siano durate. A specchio dei coloni. Somalia, Eritrea e Libia ripetono, ingigantiti dalla copia, i difetti degli italiani, aggressivi, cinici, prepotenti, bisognosi, incapaci d’amministrarsi, con una capacità politica sempre mediocre. Erano così prima degli italiani? Sarebbe ancora più sorprendente. Ma l’Etiopia, dove gli italiani sono stati poco tempo e c’è solo un inizio di assimilazione dei loro vizi, è dimostrazione al contrario dell’imprinting coloniale.

Complotto – Alla fine, può essere solo dei giudici.
Il complotto deve avere una razionalità - donde l’indigenza delle teorie del complotto, seppure ascendibili a nomi celebri, Marx, Nietzsche, Freud. Una mafia le giustifica, ma solo in parte. Ci deve essere un capo, un patto, una struttura, un meccanismo sanzionatorio. Che la mafia possiede , ma non al punto da controllare così tanti traditori o infiltrati quanti sono i pentiti, o i nuovi mafiosi, i concorrenti a perdere. La speculazione per via di complotto, invece, è una contraddizione: la Spectre, sia pure finanziaria, può essere solo una persona, massimo due, il segreto è dirimente. E il complotto dei giudici? Questo è possibile, perché gli apparti giudiziari sono separati, quindi “segreti”, e istituzionali, cioè dotati di potere autonomo: Né hanno bisogno di cose o fatti: essendo intellettuali, marciano sulle idee e la politica, su semplici echi, indicazioni labili.

Scientismo – Ritorna imperioso e anzi è dominatore, dopo l’eclisse seguita alla biologia razzista, alle guerra tedesche e all’Olocausto. Un neo scientismo i cui inizi si possono anche datare, ai primi anni 1970 con le leggi per l’aborto. Ma non ha argomenti né orizzonti diversi dall’eugenetica del primo Novecento, che aveva coronato lo scientismo ottocentesco: la buona morte, il controllo e la selezione delle nascite.

Vino - È una droga? Molti giovani muoiono ubriachi al volante, e il codice della strada punisce più di un bicchiere. Il vino è sempre stato un inebriante. Da ultimo con Baudelaire, che polemizzava a distanza di quasi mezzo secolo con Brillat-Savarin, la “Fisiologia del gusto”, 1825, facendone il sollievo e l’ispirazione del solitario. Il vino è per Baudelaire ricordo e oblio, gioia e malinconia. È una via della trasgressione, uno dei paradisi artificiali: è una droga.
Baudelaire rimproverava a Brillat-Savarin di non aver parlato bene del vino. Il filosofo del gusto diceva il vino parte dell’alimentazione, e mangiare, mangiare bene, è un atto conviviale. Il suo effetto, a differenza degli altri cibi, è di “amplificare” leggermente il corpo, di renderlo “brillante”, ma non di più. Mangiare si fa in compagnia, si regge con la conversazione, per la quale bisogna ben essere presenti a se stessi. Ed è quindi semmai un antidroga.

astolfo@antiit.eu

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