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giovedì 30 giugno 2011

Letture - 67

letterautore

Camilleri - Il segreto della speciale lingua di Camilleri è duplice. È il vocabolario limitato, una lingua semplice. In bocca a personaggi fortemente connotati e immutabili – il vecchio procedimento della commedia dell’arte: le parole a volte astruse per gli stessi parlanti siculo-calabresi sono ripetitive e connotative – ogni personaggio ha i suoi “nomi”. La serie dei “Montalbano” è un piccolo villaggio (gruppo, comunità), con ticchi noti. Un teatro. Dai modi noti e attesi, il teatro dell’arte. In cui indefettibilmente tutti fanno sempre e dicono le stesse cose: un teatro di maschere.
È l’uso anche di un dialetto che non è dialetto, che altrimenti lo renderebbe incomprensibile: è una lingua che usa sonorità e terminazioni dialettali in una costruzione e in un contesto italiani. Che è la lingua parlata al Sud dai borghesi – professionisti, proprietari, gente d’affari (quelli del “circolo”, luogo caro a Camilleri, non necessariamente de nobili o dei borghesi, anche degli sfaticati e perfino dei “compagni”).

Dialetto – Camilleri spiega la sua speciale lingua rifacendosi a Pirandello, che “traduceva”, dice, dal dialetto. E ogni personaggio caratterizzava socialmente. Ma Pirandello non traduceva, parlava (pensava) agrigentino. Anche quando, il più delle volte, non lo scriveva: la lingua è una forma mentis. E quando scriveva caratterizzava, a volte anche socialmente, ogni parlante – si fa così in teatro da Molière in poi, comprese le rappresentazioni metafisiche. Lo fa anche nei racconti, che sono teatro raccontato (facilmente adattabili alla scena). Ma non “adattava” il dialetto, come invece fa Camilleri.
In realtà l’ordine espresso dal dialetto è già un ordine sociale: è anzitutto parlato, e si adatta alla classe, alla campagna, alla città, al quartiere (solo a Roma ci sono almeno quattro dialetti: a Trastevere e San Lorenzo, al Flaminio-Parioli, a San Basilio-Tiburtino Terzo, e uno bastardo nelle aree a forte concentrazione d’immigrati abruzzesi o calabresi), alla zona geografica, alla professione. È cioè, in letteratura, borghese: il dialetto articola la rappresentazione che un borghese si fa della realtà, compresi gli interstizi, derisori, in italiano – fino all’autoironia, certo.
Analogamente il romanesco di borgata in Pasolini, fricchettone, e ora già inespressivo, rispetto a quello letterario (che Pasolini conosceva meglio di ogni altro). O il romanesco di Gadda, che è la lingua (il punto di vista) del Flaminio-Parioli – adattabile a San Giovanni (Merulana), ma sempre tra i professionisti, compresi gli impiegati di concetto e le loro mogli.
Il dialetto è una lingua sociale – non nazionale, neppure nel senso (nei limiti) della tribù, della ragione. E umorale (teatrale). E la fazione prevalente dei suoi umori è di tipo classista.

Giallo - I complotti piacciono. Per la natura del complotto, che si costruisce come un giallo - spiega cioè ogni cosa senza che essa debba essere vera. Una corrente di pensiero vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni forma logica: discenderebbe dalla necessità di causa ed effetto. Heisenberg ce ne vorrebbe privare, così presto - è appena un secolo, un secolo e mezzo contando Poe, che l’umanità si gode il giallo e i piaceri della logica. Ma questo è il difetto dell’epagoge, inductio, che abbisogna di una gran quantità di cose per porre il principio logico, o universale. Quante devono essere queste cose? E la conclusione si può sempre rovesciare. Si può immaginare un giallo fatto di deduzioni e controdeduzioni, che vadano avanti per duecento pagine, quanto il giallo dev’essere lungo. Oppure di un monte di fatti cui si contrappone un altro monte di fatti. Questo è stato fatto spesso in letteratura, il volgare “visto dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, per quanto forbita, onorevole e anzi è fastidiosa. Ne era maestro Socrate, di cui gli ateniesi si liberarono con sollievo. L’apagoge è l’abduzione, la tecnica per cui si assume la tesi dell’interlocutore per vera, ma poi, unendola a qualche altra proposizione nota come vera, se ne trae una conclusione palesemente falsa, in quanto contraddice la natura delle cose (argomento ad rem), oppure le altre affermazioni dell’interlocutore (argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne sia maestro, e invece è simpatico perché le evita.
Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano la realtà e la storia. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte. Con le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nell’alchimia del potere, che si vuole arcano per quanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è ottimo esercizio d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene. La logica, compresa del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa già la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare. Non ci vuole mica molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, coi tiranti, le redini, la frusta, annunciata, prevista, spiegata perfino. Il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è anche il regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi montati dalla polizia. Però sono manifesti.

Inglese – “Sette”, la rivista del “Corriere della sera”, insegna l’inglese corretto agli italiani ignoranti: “L’inglese maccheronico degli italiani”, titola uno sferzante articoletto oggi. Che così comincia: “Incubi linguistici per top manager moderni. Che nonostante un ruolo e un trend de vie da frequent flyer…”. Da incubo. Per i troppi solecismi, il genere “ne so di più”. E quel “trend de vie” che, oltre che incomprensibile, conferma la scomparsa del francese (il désert, il dépliant, etc,) e, effettivamente, la scarsa conoscenza dell’inglese, malgrado la supponenza (“trend de vie” sta per il francese “train de vie”, stile di vita). La cui corretta pronuncia il settimanale poi così impone: MI-nĐt per minute.... Quando invece gli inglesi non sono (più) spocchiosi.
La lingua dell’impero – dell’Occidente? - è da tempo la lingua franca del mondo, compresi i latini e l’ex terzo mondo. Piena quindi di incrostazioni varie, curvature, derive, di lessico, di grammatica e naturalmente di pronuncia. Più povera e più ricca insieme di senso rispetto all’inglese oxoniano, accademico. La pronuncia in particolare è fortemente sregolata. Si prenda l’inglese degli scienziati, che da più tempo lo praticano come lingua comune: quello dei giapponesi, o dei russi, è quasi un gergo (il sonoro, non lo scritto). O quello dei sudamericani, dei filippini, degli indiani e asiatici in genere, degli africani. Di maccheronico ci sono solo i puristi.

Proverbi – “Ricordati, tadduni, quand’eri sarmentu”, è uno dei tanti proverbi con cui la baronessa Agnello anima i suoi libri – in particolare “La zia marchesa”: ricordati ciocco (tronco, ceppo) quand’eri pollone. Che cosa vuole dire? Niente. La maggior parte dei proverbi non vogliono dire niente: non significano, tantomeno un’etica o una saggezza.
La saggezza popolare cui si richiamano i primi folkloristi, raccoglitori di proverbi e idiotismi, li ha traditi trasformandosi in politica, ideologica, di classe o di partito. Tutte realtà che non c’entrano con la saggezza.

Sherlock Holmes - Letto in chiave comica è di una sicurezza rinfrancante. Non propriamente comica, non si ride, ma ironica. Sottilmente canzonatoria nei riguardi della “realtà”. Che è una, ma fra le tante. È il segreto anche di padre Brown, e delle altre storie a sorpresa di G.K.Chesterston.
È in questa chiave che il giallo di Conan Doyle è sempre una storia dell’inverosimile: Sherlock Holmes immagina, inventa, ribalta, accelera, anticipa, con una sua figurativa consequenzialità, non ancora a nessuna verosimiglianza, anzi sfidandola. La sorpresa per la sorpresa, di cui è il domatore.
Lo Sherlock Holmes di Mark Twain “è capace di scoprire un delitto solo se prima ha preparato un piano, classificato i suoi argomenti e accumulato le prove”. Il “paradigma indiziario” è tipicamente una forma di logica deduttiva, o di ragionamento per formule logiche, che fa riferimento a indizi esterni. È circostanziale, cioè non potrebbe essere un paradigma.
Quando si dice delle storie di Sherlock Holmes (o meglio della detective story all’inglese, o alla Agatha Christie): “Indovinate il colpevole dall’errore che ha commesso”, in realtà si fa riferimento a un errore “paradigmatico”, scelto cioè dall’autore per farvi ruotare attorno l’enigma e la sua storia. Di “errori” in realtà il colpevole potrebbe averne commessi a diecine, anche nelle sue azioni o manifestazioni buone, oltre che in quelle cattive, se volessimo far riferimento a una storia circostanziale. In più della buona o della malvagia volontà, c’è l’incidente, la malattia, la costrizione, un insieme incredibilmente vasto di possibilità. Ed è ciò che fa la storia aperta alla Hammett, o noir.

letterautore@antiit.eu

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