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martedì 14 febbraio 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (117)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud leghista di PasoliniIl poemetto “L’umile Italia”, spiega l’ottima voce “Pasolini” di Wikipedia, “apparve nell’aprile del 1954 su “Paragone-Letteratura” e rappresenta la contrapposizione tra la cupa tristezza dell'Agro romano e la limpida luminosità del settentrione. Il Nord, il cui emblema sono le rondini, è puro e umile e il Meridione è “sporco e splendido”, ma: “È necessità il capire/ e il fare: il credersi volti/ al meglio”, cercando di lottare pur soffrendo senza lasciarsi andare alla “rassegnazione - furente marchio/ della servitù e del sesso -/ che il greco meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi”, annota Fortini, che la dice “la più frequente figura del linguaggio di Pasolini, “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”. Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?

Pasolini fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese – il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.

Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo. La borghesia “è forse la peggiore d’Italia: appunto perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti”. Naturalmente quando vota per il Pci la Calabria fa eccezione, le volte che lo vota.
Pasolini è partito dicendo che il suo reportage dalle coste italiane dell’estate precedente non ha detto della Calabria, di Cutro in particolare, ciò che ha detto (“una calunnia”, dice, “umiliante per i calabresi e ingiusta per me”, che “ha creato uno dei più esasperati equivoci che possano capitare a uno scrittore”). Ma ne pensa, nella bontà, peggio.

Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).

Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.

Sicilia“L’anarchia si pone fin dall’inizio dalla parte dell’unificazione tecnica del mondo”. È un tema ricorrente di Ernst Jünger, ma l’annotazione insorge tra i primi appunti del suo breve “Viaggio in Sicilia”.

“Astuti nel fare il male e neutri di fronte all’offesa”: così i siciliani per Quatrarius Familius, il vescovo normanno di Palermo che costruì Monreale.
Quatrarius dice il dizionario è chi abita o frequenta i quadrivi o le piazze. Per estensione anche ragazzotto o monello.

Il 20 e 30 dicembre 1836, in due numeri successivi del suo periodico “Il vapore”, che editava a Palermo, il giornalista di Licata Vincenzo Linares s’inventò “I Beati Paoli”, banditi buoni medievali. La storia piacque subito. Quattro anni dopo il poeta messinese Felice Bisazza la consacrava in un poemetto. Molte altre versioni furono pubblicate nella stampa popolare, fino alla lunga serie di Natoli nel 1909. Anche per la mafia la Sicilia vuole i quattro quarti.

Il gusto è insaziabile nell’isola di accuse e controaccuse, sospetti, killeraggio morale, oltre che fisico. Anche somaticamente: era bella la Sicilia, benché narcisistica, perfino spiritosa, e comunque sapiente. Ora è inarticolata, gonfia, insipida, affetta da nanismo indotto se ne esistesse uno. È forse questa la mafia, l’autosconfitta.

Si è infine sconfessata nel fine settimana a Reggio Calabria, dopo trentasei anni, una vicenda di giustizia, per così dire, che altrove non sarebbe possibile. Di quattro giovani ventenni che nel 1976 furono accusati di avere ucciso due carabinieri e condannati all’ergastolo, pur sapendo tutti che non erano i colpevoli: i carabinieri, i giudici, e probabilmente anche i giornali. I quattro erano stati assolti a Trapani ma condannati a Palermo in appello. Poi ricondannati tre volte, sempre da Palermo, quindi da Catania e Caltanissetta, su altrettante sconfessioni della Cassazione.
Quattordici anni di processi e ventidue di carcere.
Con i tribunali locali pervicacemente colpevolisti, contro ogni evidenza e contro la stessa Cassazione.
Dei quattro, due sono dovuti fuggire in Brasile, uno è stato suicidato in carcere (impiccato, benché fosse monco), e uno è rimasto vivo in cella. La cosa si è risaputa solo ora che il caso è stato ri-giudicato fuori Sicilia, a Reggio Calabria. L’omertà, certo.

Buttarsi la mafia gli uni sugli altri è in Sicilia impulso irrefrenabile e forse piacevole. È questo che più gonfia la mafia:, l’omologazione, la “nazionalizzazione” nel carattere (sarà questa l’omertà?). Che finisce per inghiottire tutto, la politica, gli affari e l’antimafia. Non mafioso, dichiarato, a muso anche duro. Ma sicofante della mafia vera, muta.
In questo contesto la mafia è la politica. Politica in senso lato, comprendente le istituzioni e dunque anche l’antimafia e la stessa Legge, giudici cioè, carabinieri e poliziotti.

leuzzi@antiit.eu

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