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venerdì 11 maggio 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (127)

Giuseppe Leuzzi

L’odio-di-sé viene col discorso
Progettando “Il richiamo dell’ululone”, un grottesco mortuario su una copia in età, un tedesco e una polacca, G.Grass concludeva vent’anni fa: sarà una storia su “come Tedeschi e Polacchi non possono fare a meno di corrispondere ai loro cliché rispettivi, ai ruoli imposti”.

Puramente etnico, anzi storico, scevro di nervature religiose o razziali, l’odio-di-sé è esemplificato nella sua natura ultima, di “discorso”, in molte sfumature da Herta Müller su “La Lettura” di domenica 6 maggio. A proposito di Émile Cioran da lei incontrato a Parigi. Due rumeni che si rifiutano, tra rabbia e luoghi comuni.
Cioran si era ampiamente distinto nel rifiuto. Una dele sue frasi celebri è: “La lingua si vendica su di me. Più invecchio e più spesso sogno in romeno. E non posso oppormi a questo”. Il bisbetico Cioran diventa per questo amichevole: “Se avesse potuto proibire qualcosa, disse, avrebbe proibito il mio ritorno”. Di quanto lasciò la Romania nel 1937 Cioran ricorda l’amico ubriaco che la notte, “rivolto verso il cielo scintillante di stelle”, dice: “Dio, perdonami di essere romeno”. Cioran era arrivato da Herta Müller col ginocchio “sbucciato e sanguinante” perché era scivolato sul ghiaccio. E si era difeso così: “La cerco e già cado, già sono un romeno”.
Il rifiuto di Cioran è nella Nobel, se possibile, più radicale. Altrove, e anche qui: “Lui mi cercò”, esordisce, per il motivo che “mi portavo appresso quel paese dell’onnipresente fallire”. Come se i due fosse nati e cresciuti in Romania ma su un tappeto o un prato a parte. Senza contare che “un cielo scintillante di stelle” difficilmente si trova a Parigi, o in Germania, dove la Nobel vive.

Ci sono i romeni-romeni in fuga dalla Romania, Eliade, Cioran. Ci sono i romeni-tedeschi come Herta Müller. E ci sono i romeni-ebrei, Celan, Manea. Le prima due categorie nell’esilio si cercano, anche se di opposti credo politici, dialogano, con gli ebrei no.

Breve storia del Nord – 4
I goti, quando non erano in guerra, giocavano a quelle degli dei – i temporali, che al Nord sono frequenti, erano per loro guerre di dei: scagliavano frecce contro le nubi, pensando così di uccidere gli dei avversi alle loro guerre, e agitavano, racconta Olao Magno, “Storia dei popoli settentrionali”, “dei mantelli di peso insolito, fatti di una gran massa di bronzo, per riprodurre i fragori del cielo”.
Al tempo di Olao Magno il Nord viveva in capanne e caverne, in promiscuità. Olao Magno, 1490-1557, fratello e segretario del più famoso Giovanni, divenuto arcivesco in una con le fortune politiche dei Vasa da lui patrocinate a Roma, è, nella presentazione Bur della sua enciclopedia, egli pure “arcivescovo di Uppsala, primate di Svezia, cardinale e umanista”. Di nome Olaf Manson, latinizzato in Olao Magno, fu inviato dal re Gustavo Vasa in ambasceria in Italia, da dove non tornò più essendo passata la Svezia con i luterani. Si stabilì dapprima a Venezia, poi a Roma, dove morì. Fu attivo al Concilio di Trento, e scrisse il suo repertorio, “Historia de Gentibus Septentrionalibus”, “per appagare la curiosità e l’interesse che gli ecclesiastici e gli umanisti italiani manifestavano per il mondo nordico”.
Suo fratello Giovanni è autore della più nota “Storia dei Goti”, scritta per sancire l’autonomia, e la superiorità, della Svezia dalla Danimarca. Giovanni fu mandato a Roma nel 1517, dieci anni prima di Olao, dal nobile Sten Sture, che voleva staccare la Svezia dalla corona di Danimarca e proclamarsene re. Il re danese Cristiano II, appoggiato dal vescovo di Uppsala Gustav Trolle, montò una spedizione contro Sture, di cui ebbe ragione. Se non che Gustavo Vasa vendicò lo Sture, suo parente, provocando una rivolta popolare, che ebbe ragione dei danesi e proclamò re lo stesso Vasa. Nella sua storia, a uso del papa a Roma, Giovanni Magno sostiene che i goti hanno occupato la Scandinavia subito dopo il Diluvio, che una parte dei goti si spinse fino a occupare la Danimarca, e che quindi la Danimarca era un’antica colonia svedese.
La storia si fa.

“L’anima Nordica” è opera nodale, benché rimossa, di Ferdinand Clauß nel 1923, discepolo di Husserl e Heidegger. Che fu nazista antemarcia, e una filosofia del razzismo creò, fenomenologica, accanto alla biologia. “L’anima della razza” anzi affermò superiore al sangue, che in Germania gli risultava annacquato, per ubriachezza, azzardo, discordie, i tedeschi puri ponendo in Scandinavia.

Negli anni 1950 il lettissimo viaggiatore americano John Günther diede al Nordico “ardimento, semplicità, determinazione, nobiltà, eroismo, forza di volontà, capacità di giudizio, senso della realtà, spirito di cavalleria e un aspetto terrificante”. Senza ironia: gli esemplari di nordici-falici, checché Günther voglia dire, e di orientali-dinarici, con cui illustrava in fotografia i suoi “viaggi”, uno teme di sognarseli.
Si vuole anche che il razzismo sia violento odio di sé, di disadattati, brutti, confusi.

Ai tempi di Breznev – c’è stato un Breznev nella storia europea – lo scrittore Amalrik fu esiliato dalla Russia sovietica perché aveva sostenuto la tesi normannista, che anche gli slavi sono uomini del Nord. Tra essi i veneti, che sarebbero ex polacchi, tra Oder e Dniepr. E i tedeschi? Sono biondi quando sono slavi? Si spiegherebbe il fascino che incutono ai russi. O non scandinavi, figli delle loro violenze? Insolubile dubbio, se slavi e scandinavi uno sono.

La giustizia politica
Il sostituto Procuratore di Palermo Di Matteo e il giudice Morvillo, cognato di Falcone, sostengono al giornale radio del mattino di Rai 3 che l’assassinio di Falcone e di Borsellino fu voluto dalla politica. Di Matteo ha alluso a “ prove consistenti” emerse nei procedimenti. Ma consistenti con una serie di “probabilmente” ed “eventualmente”. Incapacità? Furbizia?
Nessun accenno al Csm, alla stessa Rai, e al Parlamento che coprirono Falcone di una serie d’infamie – e in parte poi pure Borsellino. Dichiaratamente, senza sotterfugi. Ciò che nel gergo della mafia ha un significato inequivocabile: “Mettere nel mirino”.

Due giudici, Alessandra Camassa e Massimo Russo, che si definiscono “allievi” di Borsellino, si sono ricordati che il maestro a giugno del 1992 disse in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Non se lo sono ricordati ora ma nel 2009, quando il Procuratore Ingroia cominciò a parlare della trattativa mafia-Stato. E ora intervengono in Tribunale che Borsellino a questo intendeva riferirsi, alla trattativa. Saranno pentiti anche loro? Cercano cioè “benefici”

Giuseppe Grigoli, il killer di don Pino Puglisi a Palermo, dopo aver confessato “circa” 50 assassinii, si dice “sgravato” e “credente in Dio”. Come l’altro killer, Spatuzza, che invece ha confessato circa 100 assassinii. Entrambi sono pilastri delle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, e sul mandato politico all’assassinio di Falcone e Borsellino.

leuzzi@antiit.eu

1 commento:

Filippo C ha detto...

Segnalo che il killer di Don Puglisi, poi pentito di mafia, si chiama Salvatore Grigoli, e non Giuseppe come erroneamente indicato nell'articolo.
Suggerisco di correggere l'errore,per correttezza d'informazione.