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venerdì 27 dicembre 2013

Il postmoderno comincia con Bernhard

A vent’anni dalla traduzione, a trenta dalla pubblicazione, questa autofiction, ultima parte dell’autobiografia, che Bernhard ha scritto a ritroso, ciò che sembrava brillante lo è ancora. Sul tono desecratorio, anche quando è grato o comunque felice, che Céline aveva imposto e in cui eccelle. Con un più di costruttivismo – l’abominazione di Bernhard è sempre costruita, non viene dal fiele, o dalla condizione umana. E più che mai è la giunzione verso la scrittura postmoderna, di cui Foster Wallace, Baricco, saranno eccellenze, di aneddoti montati, agganciati, frase su frase, parola su parola, esercizi di abilità. Letture preziose di cui poi non si ricorda nulla. Ma di lui sì.
La fuga in bicicletta, a otto anni, per un impellente bisogno di andare da un’amata zia a 40 km. di distanza, della quale poi non sapremo più nulla, può essere un’avventura per qualche aspetto memorabile, Bernhard ne fa un memorabile esercizio di scrittura. Trent’anni fa, quando si scrisse bambino, ma anche prima, inaugurava il racconto come esercizio di bravura. Anche piegandosi all’ortografia, come qui comincia infine a fare.
La materia è dura. Thomas è il figlio non voluto, di un padre assente, partorito di nascosto in Olanda, dopo un lungo viaggio da Salisburgo, in un convento di suore, riconosciuto dalla mamma ma subito messo a balia a Rotterdam su una chiatta puzzolente, quindi cresciuto a cinghiate dalla stessa madre, tanto amorosa quanto disperata, in una famiglia di maschi, molto anarchici, molto grandi scrittori e grandi politici, che vivono a spese delle donne, la moglie, la figlia. Nonché del “tutore” di Thomas, il marito che la figlia si è infine trovato, un amico del fratello. Il nonno adorato che scrive il romanzo, “un individualista” che “fino al cinquantunesimo anno della sua vita non guadagnò praticamente niente”. E lo zio che fa il comunista, dentro e fuori il carcere, e poi il pittore, d’interni, l’imbianchino. Nella Vienna degli anni 1930, di fame e topi affamati.
Una memoria, per qual tanto che c’è, dei nonni. E della madre derelitta, anche quando è sposa, per l’abbandono mai digerito del primo uomo, il padre ignoto di Thomas. Dell’infanzia c’è poco. Mentre c’è un Bernhard socievole – se non è facilitato dalla traduzione di Renata Colorni: quaranta, cinquant’anni dopo, ricerca caparbio, rispettoso, i vecchi compagni di  scuola e d’infanzia, con i quali, com’è noto, è difficile poi dirsi alcunché. Con qualche sorpresa. La casa di correzione in Turingia non è diversa nel 1950 rispetto al 1939, del Reich millenario, solo c’è il comunismo invece del nazionalsocialismo.
Thomas Bernhard, Un bambino, Adelphi, pp. 148 € 16

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