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martedì 11 febbraio 2014

La rivoluzione è la “decency”

Orwell è scrittore dalle idee chiare, che espone con semplicità, prima che scrittore. Negli articoli, e anche nelle recensioni, di questa raccolta, 100 pezzi in tutto, ha squarci di realtà ancora inesplorati dalla storiografia. Sull’India, la Birmania, la guerra di Spagna, La Cina remota e vicina: “Se la Cina dovesse prendere la strada del Giappone le conseguenze sarebbero davvero difficili da immaginare”, scrive nel1944: “La Cina costruisce già mitragliatrici, e tra breve inizierà senza dubbio a fabbricare aerei da combattimento”. Sul fascismo che prospera anche senza guerre: “Il nodo centrale del fascismo sembrerebbe consistere non tanto nel fatto che esso risolve i problemi facendo la guerra, quanto piuttosto che li risolve in modo non democratico e senza abolire la proprietà privata”. Sul libero mercato con le famose “regole”, mentre è intrinsecamente monopolistico, per un motivo semplice: “Il problema con le gare è che qualcuno le vince”. E con pezzi d’antologia, un mondo in due pagine: sulla speleologia, il nazionalista indiano, lo stereotipo del cinese (“chiana man”), le Faroer, e su molti letterati, Conrad, Stevenson, Dickens più volte, Cyril Connolly, Edmund Wilson.
Insuperato è anche nelle corrispondenza del giugno-luglio 1945 in “Europa” - l’Europa continentale è per Orwell “Europa”. In Francia, il partito Comunista  è “il meno anticlericale tra i partiti della sinistra”. I tedeschi, tra le macerie, sono “ben nutriti, ben vestiti”, meglio degli inglesi vincitori, con “biciclette più nuove e calze di seta”, solo vergognosi “terribilmente di aver perso la guerra”. Senza un cenno, né a Parigi, né a Vienna, Berlino, Amburgo e qua e là per la Germania, ai campi di sterminio: non se ne parla, non si sa. La grande questione èa come gestire i deportati, quattro milioni e  mezzo di russi, polacchi, francesi, italiani, etc., al lavoro in Germania, molti di essi volontari, tutti remunerati e nutriti, fino alla fine della guerra, e in regola con le norme tedesche a protezione del lavoro, da sfamare e rimpatriare. Mentre si dà per certo che non finirà presto la guerra in Asia, contro il Giappone – la Bomba arriverà il 6 agosto. “La fattoria degli animali” è già uscita, con scandalo, ma Orwell chiede ripetutamente un piano di ricostruzione anglo-americano che possa coinvolgere l’Urss, paventando quella che si chiamerà la guerra fredda.
Questa chiarezza spiega Orwell, l’isolamento che accompagna la verità. L’anarchico conservatore il cui momento non è mai venuto in Italia, non senza motivo: la cultura più lontana dalla vera libertà – che non è quella dei vecchi liberali. Orwell non edulcora - anche la vittima può rifulgere vincente, se compassionevole e compassionata. Drammatizza, col senso della storia. Ma anche questo con semplicità, mantenendo vigile il gusto del giusto e dell’ingiusto. L’ultimo suo lettore, il filosofo francese Jean Claude Miquéa, ne spiega il socialismo con la formula a lui cara della “common decency”, non banale come sembra: “La common decency si áncora nelle strutture elementari della reciprocità che fondano da sempre la vita collettiva… Orwell aveva perfettamente ragione di sottolineare il fine «conservatore» di ogni progetto rivoluzionario. La possibilità di una vera società socialista dipenderà in gran parte dalla capacità delle persone comuni di preservare le condizioni morali e culturali della loro propria umanità”. La “decenza” è coniugare l’economia sociale con la libertà, dice qui Orwell ,“il che può avvenire solo se i concetti di giusto e sbagliato saranno restituiti alla politica”.
La prefazione di Jonathan Heawod, il direttore dell’“Observer” che dispose la raccolta dieci anni fa, lo ricorda isolato ancora in vita, malgrado i successi di giornalista e scrittore. “La Fattoria degli animali”, terminata a fine febbraio 1944, le ci volle un anno per trovare un editore. Victor Gollancz la respinse perché anticomunista, T.S. Eliot la respinse, per conto di Faber, perché “troppo solidale”, cioè comunista, Jonathan Cape su consiglio di un amico al ministero dell’Informazione, secondo il quale la satira avrebbe suscitato il risentimento dei russi, preziosi alleati – “balle”, scrisse Orwell a margine della lettera (l’amico di Cape al ministero era Peter Smollett, spia sovietica poi famosa).
Il giornalista è anche uno scrittore, il suo “1984” resta tra i monumenti del secondo Novecento, per quanto indigesto. Anche qui dà molti saggi narrativi. Facendo emergere quella che è la sua chiave: non trasfigurare, non cercare vezzi. Un aneddoto di Heawood fotografa lo scrittore e il giornalista. Orwell a Parigi a metà 1945, già famoso per “La fattoria degli animali”, vedendo il nome di Hemingway nella lista degli ospiti illustri dell’albergo, lo cerca in camera, e si presenta come Eric Blair, il nome anagrafico. “Beh, che vuoi?”, risponde Hemingway, credendolo uno dei tanti giornalisti inglesi. Orwell allora azzarda il suo nome de plume. E Hemingway si fa cameratesco: “Perché non l’hai detto prima? Entra, beviamo qualcosa. Facciamoci un doppio whisky”. Questo nel racconto di Orwell. Hemingway invece ricorda che Orwell lo andò a trovare con aria “alquanto tesa e preoccupata”, timoroso che gli agenti di Stalin gli fossero alle costole, e gli chiese una pistola, che Hemingway gli prestò, una Colt calibro 32. Orwell si vuole onesto, Hemingway prigioniero delle mitizzazioni.
George Orwell, Gli anni dell’ “Observer”, Bcd, pp. 348 € 8,90

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