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giovedì 13 novembre 2014

La magia è morta, con la vita

La fascinazione, il tarantolismo pugliese, la magia “lucana”, la jettaura a Napoli, saggi vecchi e vecchissimi. Probabilmente già sessant’anni fa, quando venivano elaborati. Sopravvivenze. Nemmeno: pratiche rimembrate, di tempi remoti, folklore.
Nella riedizione, però, Galimberti rileva in De Martino una robusta nozione del magico – “molto più di quanto l’abbiano colta le pagine numerose e documentate di L.Levi-Bruhl e di M.Mauss” - e Frazer? - che restano in tema i punti di riferimento: il senso religioso del magico, come di ogni mitologema. Insieme irrazionale e razionale. Un punto di vista molto semplice, anche istruttivo in questa epoca in cui si cancellano le processione e i riti in genere come “pagani”. Per uno scadimento delle scienze umane e cognitive. A cominciare dalla nozione di paganesimo, confusa ma dotata di senso spregiativo, e questo basta. Mentre sta, si sa, per religiosità “popolare”, o incorporazione della religiosità.
La pratica magica, quando ancora si dava, e tuttora la pratica religiosa, sono “i luoghi delle sicurezze”, come argomenta Galimberti, così come ogni elaborazione mitologica, “abitando i quali è possibile affrontare l’incertezza della vita quotidiana”. Metafisica e anche pratica, di mezzi e sforzi – così come “luogo della sicurezza è anche la ragione con le sue pratiche operative”. Galimberti trova la specificità di De Martino, rispetto ai repertori di Levi-Bruhl, Mauss e dello stesso Jung, nella “saldatura tra magia e storia, e nel rapporto tra storia e metastoria che ogni magia inaugura”. Che coglie “l’essenza del magico” e la sua “ineliminabilità” – che “questo sfondo sia ordinato da Dio o dalla ragione non è importante perché importante è quel vissuto soggettivo” che dà e prende forza dalla credenza contro “il negativo che minaccia di continuo l’esistenza dell’uomo”. Bisogna avere fede per credere nella ragione - chi non ha fede (non è capace di, non ha voglia di) non crede in nulla.
La riedizione è anche una testimonianza involontaria di com’è cambiato il Sud. In cinquanta o sessant’anni. Posto che fosse come De Martino lo rileva, affatturato: soggetto alla “antica fascinazione stregonesca, in connessione con altri tratti magici affini, quali la possessione e l’esorcismo, la fattura e la controfattura”. O dei limiti del folklore, in quanto studio di sopravvivenze inerti.
Un repertorio da servire, forse, allo studio dei linguaggi, delle mentalità. Ma in quanto “storia religiosa del Sud”, come Galimberti la ripropone, ha un che di provvidamente anacronistico.  
Ernesto De Martino, Sud e magia, Ue Feltrinelli, pp. 207 € 9

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