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venerdì 5 dicembre 2014

Allegro con Hitler

Inquietante. Non “gelido” come lo voleva Magris – “gelido catasto dei giorni deserti e dell’assurdità delle cose” – né desertico, e non un “diario dell’effimero e della vanità”. O forse sì, vanitoso Hamsun lo è sempre stato, e di più naturalmente invecchiando, ma non assurdo: è come era sempre stato, ha ragione lui. Anche in questa memoria, scritta tra il 1945 e il 1948, quindi tra gli 86 e gli 88 anni, del confino in un ospedale in disuso, in una casa per anziani, in una clinica psichiatrica, e poi di nuovo nella casa di riposo, in attesa di un processo per collaborazionismo e apologia del nazismo che non si sa o non si vuole fare e si rinvia di tre mesi in tre mesi – alla fine si farà, e per tutta pena dell’accusa di tradimento Hamsun avrà un’ammenda, anche se salata. Una prosa più che altro esilarata. E esilarante, c’è poco da dire – l’editore spende Hemingway nella fascetta, “Knut Hamsun mi ha insegnato a scrivere”, e non fa un abuso: un po' tutti nel Novecento hanno appreso da lui a raccontare dialogando.
Hamsun non si era macchiato di nessuna colpa specifica durante l’occupazione tedesca della Norvegia. Ma si voleva un tedesco di provincia, e la Norvegia vedeva un distaccamento nordico della Germania. Inoltre amava Hitler, credeva in lui. Aveva approvato l’invasione. E sapeva della persecuzione degli oppositori, carcere, torture, esecuzioni, benché non ne denunciasse nessuno. Non sapeva dello sterminio degli ebrei, dice, ma era possibile non saperlo.
L’autodifesa di Hamsun, quando infine la cosa fu dibattuta in tribunale, fu semplice, così come qui la racconta con la trascrizione che ne fu fatta tra gli atti: “Non ho fatto parte di Nasjonal Sambling”, il partito filonazista. Ma: “Io ci credevo”. A che cosa? “Eravamo stati allettati dalla prospettiva che la Norvegia avrebbe occupato una posizione elevata, predominante nella società mondiale pangermanica che si stava preparando e nella quale tutti credevamo, in misura diversa, ma ci credevamo tutti”. Che retrospettivamente è folle, ma così era – la cosa non si contesta, semplicemente non se ne parla. E più “nella neutrale Svezia”, Hamsun aggiunge che gli veniva fatto notare regolarmente da “certi tedeschi relativamente altolocati”. Poteva emigrare, Hamsun insiste, non se la sarebbe passata male, ma ha voluto servire la patria, “usando la mia penna per la Norvegia, che avrebbe occupato una posizione di primo piano tra le nazioni germaniche. Fin dall’inizio mi sentii attratto da quel pensiero. Di più, esso mi entusiasmava: ne ero posseduto”. E non è finita: “Coloro che oggi godono della mia umiliazione, poiché hanno vinto, hanno vinto esteriormente, in superficie”.
Hamsun credette a Hitler anche dopo morto. Il 7 maggio 1945 volle rendergli pubblico omaggio con un ditirambo, che inizia con un “non sono degno di parlare solennemente di Adolf Hitler”: “Era un guerriero, un pioniere dell’umanità e un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni. Era una figura di riformatore di altissimo rango”. Qui riduce a macchiette i suoi giudici, e quelli che incontrandolo si voltano dall’altra parte. Un rivolgimento non da poco: giudice dei suoi giudici, di cui mette senza remissione in berlina l’ipocrisia. Cabarettistici i tentativi di usare contro di lui la moglie, la “seconda” moglie, che per questo tennero a lungo chiusa in prigione. Con una giustificazione non da poco: “Silvio Pellico, rinchiuso in un carcere austriaco, scriveva del piccolo topo che aveva addomesticato. Il suo topo adottivo. Anch’io scrivo qualcosa del genere”. E si scopre un gallo giovane, che non sa di essere gallo in mezzo alle galline, e quando comincia a capirlo “una mano lo afferrò e nel buio lo portò”. Avendo lamentato: “Ero una persona sana e mi hanno ridotto come gelatina”. A sé unicamente rimproverando la pubblicazione di un libro di poesie, un cedimento alla vanagloria. Sfacciato, ma simpatico. Forse perché veritiero - la verità è che la guerra di Hitler fu bella per molti.
A lungo questo Hamsun è stato rimosso. Non i romanzi per i quali è famoso, “Fame”, “Pan”, “Misteri” e altri, ma questa sua memoria veridica. Tradotta praticamente alla macchia da Ciarrapico, senza data - ma era il 1962. Col titolo "Io traditore". In una collana, “I classici della controinformazione”, che sarà successivamente diretta da Marcello Veneziani, che pubblicava i “maledetti” dell’estrema destra. Sulla stessa materia il commediografo tedesco Manfred Horst ha basato il dramma “Era glaciale”, nel 1973. “Lacerato dall’acre sapore della sconfitta e tanto più trascinato dalla logica sociale quanto più s’illudeva di esserne libero, Hamsun si volge, nel suo ultimo libro, al nichilismo autodistruttivo dell’uomo ferito che solo sa reagire, esasperando le proprie posizioni  - sulle quali viene spinto a forza dal processo storico – per gratuito amore della provocazione e degradandosi per dimostrare il suo disprezzo. Anche a Hamsun, come aveva scritto lui stesso in un altro romanzo, la vecchiezza non aveva portato la maturità, bensì soltanto e nient’altro che la vecchiezza”. Magris vuole così Hamsun in questo finto diario - in un saggio peraltro pieno di intuizioni: un rimbambito che non sa quello che fa. Ma a leggerlo non si direbbe. Si voleva anzi assolto. Quando la Cassazione confermò la condanna, pur dimezzando la pena (una multa pecuniaria), decise per protesta di non scrivere: “San Giovanni 1948”, sono le ultime parole: “Oggi la Corte di Cassazione ha emesso la sua sentenza, e io non scriverò più”. Morirà tre anni e mezzo dopo.

Knut Hamsun, Per i sentieri dove cresce l’erba, Fazi, pp. 165 € 16

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