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sabato 6 dicembre 2014

Letture - 195

letterautore

Alvaro – Lo scrittore forse più cosmopolita del Novecento si vede acculato alla Calabria di origine, fino a doversene fare, suo malgrado, vestito e anzi corazza. Abbondando nelle narrazioni autobiografiche,  sia di viaggio che critiche e narrative - seppure da lontano, i ritorni sono rari e non grati. “Scopritore” di Proust, che tradusse per primo, di molti russi e della Sezcession, viaggiatore instancabile, ma non a casa, se non per causa di forza maggiore, finisce lui stesso per dedicare alla Calabria, al calabrese, alla calabresità, ovviamente indefinibile, il maggior numero di pagine ella sua pur vasta produzione.

Benjamin – Ha scritto su Baudelaire più di quanto probabilmente Baudelaire stesso ha scritto, in versi e in prosa – tolte ovviamente le traduzioni, e la copiosa corrispondenza, con la mamma e altri. Il volumone che Giorgio Agamben ha compilato un paio d’anni fa con Barbara Chitussi e Clemens Carl Härle, “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato”, ha oltre mille pagine. In gran parte appunti – più alcuni saggi a tema già editi. Sono i manoscritti di W.Benjamin che Agamben ritrovò nel 1981 alla Bibliothèque Nationale di Parigi, degli ultimi suoi due anni di vita. Un lavoro incompiuto a spese di un altro lavoro che per questo resterà voluminoso e incompiuto, i “Passages di Parigi”: al momento di parlare di Baudelaire, Benjamin aveva fermato il lavoro sui “Passages” e si era assorbito interamente sul poeta. Un caso del critico più invadente dell’autore.

Un fatto che bizzarramente non si mette mai in luce è che la Parigi del Secondo Impero, il cui abbattimento nel 1870 consacrerà la Prussia al centro e a capo della Germania, era invece vista in Germania, dai liberali e dai regni del Centro-Sud, negli anni successivi al fallimento della Costituente di Francoforte nel 1848, come una possibile protezione contro il predominio prussiano. Come patrona di una unità della Germania sul modello delle guerre di indipendenza italiana. Ne parla Engels ancora molti anni dopo, a fine 1886, nell’abbozzo di capitolo che si proponeva di aggiungere ai tre capitoli sulla “Teoria della violenza” della seconda sezione dell'Anti-Dühring, di dieci anni prima, per compilare un volume dal titolo “Il ruolo della violenza nella storia”. Il capitolo doveva ricapitolare la storia della Germania dopo il 1848, e della “violenza bismarckiana”, fino a tutto il 1888.  Questa storia dell’unificazione rimase allo stadio di appunti e progetti, ma abbastanza da far emergere uno stato di fatto nell’opinione tedesca, e anche nella diplomazia, poi rimosso.
Secondo Engels, la guerra del 1859 aveva reso espliciti gli obiettivi del Secondo Impero, e tra essi, principale, “la riva sinistra del Reno”, in anticipo sulla Prussia. Con l’accordo della stessa Renania, timorosa dell’assolutismo di Berlino e da tempo aperta all’influenza francese, per gli apporti della rivoluzione dell’Ottantanove e delle stesse conquiste napoleoniche, e per antiche connessioni finanziarie: “Nei contadini e nei piccoli borghesi si risvegliavano i vecchi ricordi dei tempi dei francesi, che effettivamente avevano portato la libertà; tra i borghesi, l’aristocrazia finanziaria era già profondamente intrecciata” con la finanza parigina, ”specie a Colonia” (lo era anche a Francoforte, n.d.r.), “e reclamava a gran voce l’annessione”.
Il quadro d’assieme era anch’esso favorevole alla Germania renana, se non francese: “L’Austria e la Prussia estraniate più che mai l’una dall’altra a causa della neutralità prussiana nella guerra d’Italia, la piccola genia principesca, parte timorosa e parte desiderosa, che occhieggiava a Luigi Napoleone quale protettore di una rinnovata Confederazione renana: questa era la posizione della Germania ufficiale”.

D’Annunzio - È abruzzese. Non solo per nascita. “L’ho detto”, si giustifica Corrado Alvaro girando per l’Abruzzo, che pure non vorrebbe “definire sullo schema di D’Annunzio”. E poi si toglie d’un fiato il sassolino D’Annunzio subito per intero: “Ma che D’Annunzio abbia portato nell’arte sua molte cose  radicate profondamente nel suo popolo, è chiaro, e sarebbe chiarissimo se si dicesse che il suo svagare, il suo fantasticare, colorire, incantarsi su sequenze interminabili di parole, è tutto al fondo popolare abruzzese”.
Non ne resta fuori molto. Alvaro dice “l’architettura di Gardone”. Ma anche a quella, neoclassica o barocca che si voglia, “postmoderna”, l’Abruzzo ancora oggi non può dirsi estraneo.

Destra-sinistra – Sergio Luzzatto pubblica la raccolta dei suoi articoli per “Il Sole-24 Ore” con Manifesto-Libri.

Hamsun – Hamsun era molto combattivo, prestante anche fisicamente, e “giovane”. Sulla sua figura si proietta quella del dramma, e quella dei suoi scritti autobiografici del dopo-1945, come di un vegliardo sordo, col bastone e poco senno, anche quando aveva venti, trenta e quarant’anni. Mentre anche allora era ben eretto e combattivo. Quando scrisse lode a Hitler morto, che purtroppo suona tanto bene, aveva 86 anni

Morbidezza. - È termine italiano in tedesco (Jünger). E assonante, d’uso più ampio, in inglese.

Sade Imbalsamato da Man Ray, in quello schizzo di “Les mains libres” che non ha nulla a che vedere con mani e lo pietrifica nella Bastiglia, nella forma del bastione. Immobile, appesantito. Mentre era sicuramente molto mobile, e probabilmente magro e nervoso, come tutti i “folli”. Anche perché si sa che privilegiava le ore di libertà, di camminata e attività fisica - un anticipatore della fitness. Questa pietrificazione è stata la prigione del Sade riscoperto dal secondo Novecento, anche per i pensatori che vi si sono attardati, da Klossowski e Blanchot a Foucault, Lacan e Deleuze.

Flaubert ne ha copiato interi passi, dalla “Storia di Giulietta”, tentando di rifarlo, seppure esoticamente – l’esotismo consentiva la crudeltà – in “Salammbô”.

Terra di mezzo – Non ci cita l’ovvio Tolkien nell’operazione di questo nome contro la mafia der Cupolone. Che è la prima notizia per una settimana ormai e richiede varie pezze d’appoggio per tenerla su nei giornali, retroscena, precedenti, misteri, indiscrezioni, analogie, etc. Ma di Tolkien nessuna traccia. O è già dimenticato dalla “generazione di mezzo”, post-1968. Oppure la memoria giornalistica ormai è corta, cortissima.

Tragedia – La tragedia per eccellenza, quella greca, è un canone politico. Nel 335 a.C. Licurgo decise per decreto la creazione di un corpus ufficiale di tragedie ateniesi. Decidendo anche chi doveva farne parte: Eschilo, Sofocle e Euripide. La raccolta era uno dei pilastri di una politica di recupero culturale, e quindi di relativa autonomia, di Atene nei confronti della soverchiante monarchia macedone. Ma creò così un canone, escludendo ogni altro autore. Che Aristotele subito dopo fissò, privilegiando il testo scritto e da leggere, senza musica, senza coro, senza rituali, senza altre manifestazioni visibili e connaturate alla rappresentazione. Che venne limitata alla declamazione, e in luoghi appositi, teatri solenni in pietra, costruiti dalle autorità.
Due costituzioni di identità come riduzioni. Di Atene nei drammi dei tre tragediografi, rinunciando al vasto florilegio precedente, contemporaneo e successivo. E della tragedia nel canone ristretto a asfittico di Aristotele. Senza peraltro che queste restrizioni riducessero il teatro ad Atene: che continuò a farsi occasionalmente, informalmente, e precariamente, senza strutture fisse.
Aristotele nella “Poetica” sancisce l’operazione. Limitando ulteriormente il potenziale espressivo con le unità di tempo, luogo e azione.
Una terza identità riduzionista si è avuta alla riscoperta del teatro. Che avvenne peraltro grazie alla pratica di un teatro neolatino, che dalla monaca Roswitha in poi ci è stato conservato. Nel Cinquecento si scoprì che anche Seneca poteva essere rappresentato. E con Seneca si capì che anche gli stranissimi codici di Eschilo, Sofocle e Euripide si potevano rappresentare. Un fenomeno che fece appena in tempo a schiudersi che fu subito re incardinato: l’idealismo tedesco fece del teatro tema filosofico, la “Poetica” di Aristotele imponendo come testo canonico d’interpretazione. “La nostra lettura della «Poetica» è essa stessa un artefatto del secolo XIX”, può sostenere a ragione Florence Dupond, “L’Antiquité, territoire des écarts”.

letterautore@antiit.eu

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