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giovedì 2 aprile 2015

Fuori l'io, dentro Hitler

A un certo punto, argomentando, a Derrida viene un dubbio. Se l’analitica esistenziale – se Heidegger, se il Dasein invece dell’io – non apra “uno iato”, non lasci “fragili” i “fondamenti etici, giuridici, politici della democrazia” e “tutti i discorsi che si possono opporre al nazionalsocialismo sotto tutte le sue forme”, cioè al “peggio” – l’ordine morale, si sa, non si discosta dall’io e da Kant, l’innominato.
A questo punto il derridesco si scioglie, accessibile, la preoccupazione dev’essere seria. Ma subito si ricompone. C’è da lavorarci, è questa “la questione che  potrebbe anche essere un compito”: giovarsi “dell’analitica esistenziale in ciò che essa incrina nel «soggetto» e orientarsi verso un’etica, un diritto, una politica (queste parole sarebbero ancora adatte?), cioè un’«altra» democrazia (sarebbe ancora democrazia?), in ogni caso verso un altro tipo di responsabilità che protegge”, contro il “peggio”.
Siamo nel 1989, il nazismo di Heidegger è ancora tema pudico. Ma il dubbio va al cuore della questione. Che non è di opportunismo, o carrierismo, o beato provincialismo, da contadino svevo, ma il giacimento spesso della “rivoluzione conservatrice”. Che si lascia pressoché intonso, benché pieno di umori. Pur nel gergo esoterico di Derrida, il dubbio resta. E anzi si rafforza col rifiuto dell’animalità: “È a partire dal Dasein che Heidegger determina l’umanità dell’uomo”. Con un radicalismo “inquietante”: “Mai la distinzione tra l’animale (che non ha o che non è un Dasein) e l’uomo non è stata così radicale, né così rigorosa nella tradizione filosofica occidentale  quanto in Heidegger. L’animale non sarà mai né soggetto né Dasein. Non ha neanche inconscio (Freud), né rapporto all’altro come altro, neanche fosse un volto animale (Lévinas)”. Derrida si dibatte – “il discorso heideggeriano sull’animale è violento e imbarazzante” - ma finisce per sostenere Heidegger perfino con Spinoza – l’avesse saputo, il mago di Meßkirch
Per il resto, dopo tanta decostruzione, Derrida è indeciso tra il soggetto e il Dasein: “Il Da del Dasein si singolarizza senza essere riducibile ad alcuna delle categoria della società umana (io, essere razionale, coscienza, persona), proprio perché queste lo presuppongono”. C’è, malgrado tutto, commistione. Meglio un soggetto dunque, solo meno dogmatico? “Il soggetto è anche un principio di calcolabilità”, in politica, nel diritto e nella morale. E “il calcolo serve”. Ma “il calcolo è il calcolo”. Mentre non si può, e non si deve, privarsi “dell’incalcolabile e dell’indecidibile”. Si salva intercettando il soggetto “ostaggio” di Levinas: “Il soggetto è responsabile dell’altro prima di esserlo di sé come «io»”. Insomma, seppure inconfessabile: la decostruzione come rivoluzione, e non negazione, del soggetto.
Il saggio è in forma d’intervista con Jean-Luc Nancy. Il quale vuole solo farsi confermare dal maestro la sua summa anticartesiana di dieci anni prima, 1979, “Ego sum”. Derrida non si sottrae, ma si contorce: “Il soggetto non c’è mai stato per nessuno, ecco ciò che volevo cominciare a dire. Il soggetto è una favola, l’hai mostrato bene”. Il mondo è una favola, certo, la storia. Si aggroviglia. “Non dimentichiamo le messe in guardia di Nietzsche nei confronti di quel che può legare la metafisica alla grammatica”, ammonisce. Ma dal lato opposto di Nietzsche, per la grammatica e per la metafisica:”Come disfarsi di questo contratto tra la grammatica del soggetto o del sostantivo e l’ontologia della sostanza o del soggetto?” Forse non dovremmo, se proprio non possiamo. 
Si dice per dire, ovviamente – un filosofo senza l’io (oh, Heidegger) non esisterebbe. Diciamo: per allargare le frontiere dell’Io? Tanto più che “Nietzsche e Heidegger, quali che siano le differenze, anche forti, tra loro, si sono mostrati sospettosi nei riguardi della metafisica sostanzialista o soggettivista, e tuttavia hanno continuato ad accreditare la domanda «chi?», e hanno sottratto il «chi» alla decostruzione del soggetto”. Un soggetto adulterato, tanto per non dirlo più tale? Con Derrida, sempre affannato e simpatico, possono cadere le braccia.
Il finale è MasterChef. Il “chi” ritorna dalla bocca. “Si deve ben mangiare” è anche “si deve mangiare bene”, e “si deve mangiare Bene”. Si può, alla maniera sempre di Levinas: “Non si mangia mai da soli, ecco la regola del «si deve mangiare bene». È una legge dell’ospitalità infinita”. Il rovello però è quello: “Auschwitz”.  E “il silenzio di Heidegger sui campi – questo silenzio quasi totale, a differenza di ciò che fu il suo silenzio in merito all’adesione al nazismo”. Il filosofo prende tempo: cos’è “Auschwitz”? “Qual è qui il referente? Si fa un impiego metonimico di questo nome proprio? Se sì, cos’è che lo regola? Perché questo nome piuttosto che quello di un altro campo”… 
Jacques Derrida, “Il faut bien manger” o il calcolo del soggetto, Mimesis, pp. 48 € 3,90

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