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mercoledì 1 aprile 2015

Secondi pensieri - 212

zeulig

Decostruzione – È dissoluzione. Può essere un gioco mentale, come un gioco linguistico. Se è un canone teoretico è la dissoluzione del linguaggio. Non per una diversa - decostruttiva – ricomposizione. Una dissoluzione terminale, confinante col silenzio, magari irridente – “beato” nel vocabolario di Derrida. Altrimenti ricompone comunque un soggetto.
Eliminare la volizione (coscienza, io, essere razionale, persona), è dissolvere le parole come granelli di sabbia, e gli stessi concetti, compreso quello di decostruzione. Fermo restando – ineliminabile contraddizione - il soggetto dissolutore, la volontà costruttiva.
È a questo laccio che Heidegger, filosofo rustico, granitico, calloso, di poche verità, celate ma semplici, perfino brutali, prende la farfalleggiante fantafilosofia della salmodia, della spirale esegetica.

Dio – Perché non sarebbe il “libero arbitrio”? Lutero con Erasmo non se lo dicevano, pur disputandosene entrambi la privativa, di Dio e del libero arbitrio. Ma poco prima Machiavelli vi faceva appello, nel capitolo finale del “Principe”, o dell’Italia – della Fortuna dell’Italia.

C’è un abisso tra il libero arbitrio di Giovanni Pico, o ancora di Erasmo, e l’impossibile fardello della libertà di Kierkegaard, sotto un cielo dissacrato dacché Dio s’è ritirato dal mondo.

Il Lutero epicureo dei “Discorsi a tavola” nega a Erasmo il libero arbitrio e poi dice: “Perfino Dio non può nulla senza uomini saggi”. Ma lui allude a se stesso, i profeti anzitutto profetizzano di sé.

Esempio – Non manca mai. Gli esempi non mancano a nessuna tesi. È nella natura dell’esempio – che però non ha nessuna verità più dell’assioma: di testimoniare. Anche la testimonianza non manca mai, che non decide nulla. Se non in diritto. Sia pure la testimonianza del martire, di chi sacrifica la sua vita, magari tra i tormenti – e se fosse un masochista?
Anche la storia: è sempre esemplare e non lo è. Non è definitiva, nemmeno decisiva, se non come ornamento o supplenza, una mascheratura.

Libero arbitrio - Discussero Erasmo e Lutero, uomini pii, e altri a lungo, se la volontà è libera oppure no. Ai quali Locke giustamente obietterà che “la domanda è illogica, giacché me la pongo”. Boezio avrebbe detto che il libero arbitrio va col tempo, la provvidenza con l’eternità – Boezio che la regina Elisabetta degli elisabettiani leggeva trepida la notte e si tradusse in inglese. Ma la volontà non è libera, la volontà di fare, bene ordinata. Per il peso della genetica, o dell’astrologia, della storia, della prima gabbia dell’etica kantiana, sia pure nella formulazione di Max Weber, dell’etica della responsabilità. E si fa presto a dire: “Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua persona e in ogni altra, sempre come fine e mai solo come un mezzo”. O: “Porgi l’altra guancia”. Se l’altro non ha gli stessi fini della “Critica della ragione pura” bisogna fare a pugni. O delinquere. Ecco, si è liberi di rompere.

È l’anarchia. “Se la ragione potesse”, obietta Casanova, “dovrebbe piuttosto uccidere il libero arbitrio”, invece di stare ad aspettare “di farselo col tempo amico”

Profetismo – Funziona sempre perché non costa. Non si paga. “Nella sommossa ho ucciso tutti i contadini. Ma rovescio la responsabilità su Nostro Signore che mi ha ordinato di parlare”, questo non è Rabelais o Simplicissimus, né il diavolo, ma il monaco agostiniano Lutero. Che lo soleva dire, dieci anni dopo aver inforcato come moglie legittima l’ex monaca cistercense Katharina de Bora, nell’anno fausto 1525, lo stesso nel quale i suoi principi trafissero in battaglia, e accecarono, afforcarono, decapitarono, bruciarono vivi centomila contadini. Col rischio che la Germania restasse senza patate.

È il pietismo superiore al cicisbeismo, il dottor Lutero a Casanova? I predicatori sono grandi assassini, che sobillano alla rivolta e poi incitano l’autorità a punire i ribelli.

Soggetto - È indistruttibile. Anche perché darsi le martellate da solo non può essere decisivo, si smette un momento prima. Heidegger che sembra rimuoverlo radicalmente aveva i suoi motivi: lui era per se stesso, un soggetto super – e per il Volk e la Heimat, un Dasein  molto semplice. E comunque, che martellatore!
Non riciccia per la metafisica. È la metafisica che vi si accuccia sotto, saprofita. Serva fedele o insidiosa? Questo ancora il soggetto non se lo è chiarito. E non è questo saprofitismo endorganico?

Uno\due – Resta introvabile. Era il presidente Mao? O “Sils Maria”, la poesia di Nietzsche. O Socrate, che era un cinico, beffardo. O Dante: “Ed eran due in uno e uno in due”. E l’aritmetica: le moltiplicazioni vanno a gruppi di almeno due per uno, uno per uno fa uno.
L’Uno che si fa Due, ora rituale, sé e il mondo, la regola e l’eccezione, lo stesso e l’opposto, la dialettica povera dell’amato boia, il fratello Caino, il diavolo santo, fu dissociazione penosa di Nietzsche. È principio alchemico: ciò che è intero deve dividersi, per moltiplicare la vita – o è il contrario, che il due deve farsi uno, la coincidenza degli opposti di Giordano Bruno? Nietzsche ne fu perseguitato da ragazzo: è una voce, scrisse all’esordio, che “mi costringe a parlare come se fossi Due”. È lo spirito profetico, magari è la coscienza – il soggetto (il sé) è indistruttibile.

Urban-ità (-esimo) – È all’origine del’accumulazione e dello sviluppo, economico e anche intellettuale.  Per la rendita urbana, che è all’origine dell’accumulazione capitalistica – la più cospicua, insieme alla fenerazione. E per lo scambio sociale, che è anche competizione, il motore della competitività.
La prima area ricca dell’Italia moderna, la Toscana, era già nel Duecento la più urbanizzata. Aveva una popolazione di un milione di abitanti, di cui almeno un terzo viveva in città – borghi con 5 mila e più abitanti. La peste di Boccaccio, 1348, e quella del 1426 dimezzarono la popolazione, ma il decollo era ormai effettuato. Ancora nel 1500Firenze, con 70 mila abitanti, era la città più popolosa, più di Roma e di Napoli.

L’urbanità unifica. Nel senso proprio, della città. Che si fa risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e cioè Secondo Impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della città borghese. Già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità.
Al tempo di Marx, senza scuole, senza giornali e senza altri mezzi di comunicazione di massa, c’era una certa spontaneità popolare, comunque non borghese, o piccolo borghese. Ora “il linguaggio «popolare» non è altro che il linguaggio borghese imbastardito, generalizzato volgarizzato, imbalsamato in una specie di «senso comune»”, scrive invece Barthes quarant’anni fa, “un purgatorio”, che sarebbe “rivoluzionario” evitare.
L’urbanità era di città murate. Firenze fino al 1870, Milano fino a metà Ottocento. Cioè chiuse in se stesse. La “liberazione” di Milano peraltro era cominciata un secolo prima, a metà Settecento, quando le mura vennero trasformate dal governatore Pallavicini in passeggiata pubblica, con panchine, alberi e carrozzabili – più per esercitare il cicisbeismo, che ancora incanta Stendhal (“Roma, Napoli, Firenze, 1817”) il 10 novembre 1816, che per prendere l’aria.

Le città che più a lungo sono rimaste murate, Milano e Firenze, sono state le prime e più commerciali, affaristiche. La città murata è un fatto (Napoli, Torino, Palermo non erano murate, e le città naturalmente protette, Genova, Venezia) e un concetto. Roma era, anzi è, città murata ma senza esserlo. Per l’enorme estensione delle mura, un perimetro di orgoglio più che di difesa. E per l’apertura costante, nei suoi quasi tre millenni, all’immigrazione, anche quella ostile. Anche nei secoli bui di povertà, comunque sempre meta e ricetto di pellegrini, religiosi, prostitute, mendicanti.

zeulig@antiit.eu

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