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martedì 31 marzo 2015

La polveriera saudita

Specialista di politica estera, inviata del “Wall Street Journal” in Medio Oriente, responsabile del settore editoria del gruppo Dow Jones, di cui il marito Peter Kann è stato a lungo presidente, nel febbraio 2007 Karen House scrisse una serie di articoli per il quotidiano dopo un soggiorno di un mese in Arabia Saudita, ora raccolti in libro. Mescolando le cose viste con le conoscenze maturate negli anni. Non un giornalismo investigativo, anzi piuttosto ufficiale, ma problematico.
“La sua gente, il passato, la religione, le linee di frattura – e il futuro” è il sottotitolo. Il monolitismo è quello che si vede. Una casa regnante di fratellastri, che hanno saputo evitare le guerre fratricide, Uno stato patrimoniale nel senso weberiano, cioè di cosa “privata” della famiglia regnante, con ruoli e quote per ognuno dei duemila, ormai, principi reali. Con un governo che è un consiglio della Corona, di burocrati al servizio del re.
Tra i punti di frattura viene in primo luogo l’anomalia stessa che finora ha fato la fortuna del regno: lo Stato patrimoniale. Un caso unico in tutto il mondo. La famiglia regnante gestisce ogni forma di potere politico, e ogni attività economica, sia finanziaria che industriale e tradizionale. L’economia è pertanto privata-pubblica, nel senso che dipende dagli investimenti della famiglia regnante. Nella stessa penisola arabica, gli altri principati sono molto più avanti verso una modernizzazione nel senso dei diritti civili, se non politici, e della libertà di opinione. In Arabia Saudita un potere in qualche modo costituzionalizzato è escluso. Come spiega il principe al Turki, ex governatore di Riad, una democrazia in qualche modo rappresentativa avrebbe un solo esito: “Ogni tribù si farebbe il proprio partito”
La famigli reale è a  suo modo un piccolo parlamento. Diviso in clan, venti, tanti quante sono state le mogli influenti, cioè di tribù importanti, che hanno dato figli al fondatore della dinastia, Abdelaziz Ibn Seud (1876-1953). Dei venti, House ne conta ora otto importanti. E converge sull’opinione prevalente che dà un ruolo di spicco al clan dei Sudeiri, i figli della sesta moglie di Ibn Seud. Che ha avuto un solo re, Fahd, il predecessore del re appena deceduto, Abdallah, ma ha gli interessi prevalenti in tutti i settori economici e militari, e ha il sovrano in carica, Salman.
Altri punti di frattura sono molteplici e evidenti. Una popolazione cresciuta in sessant’anni da 3 a trenta milioni. Quindi in prevalenza giovane e molto giovane. Quasi tutta beduina e ora prevalentemente urbana. Una popolazione attiva limitata agli immigrati, circa nove milioni – dal Medio Oriente e dal subcontinente indiano. La quota saudita della forza lavoro è giovanile, e limitata ai diplomati, per impieghi pubblici. L’insegnamento è affidato alle autorità religiose. La modernizzazione è tutta esteriore: grandi strade, grandi edifici, grandi centri commerciali. Il diritto non è stato ammodernato, se non per la parte commerciale, relativa all’ex-import, e fiscale, relativa agli investimenti. Le donne non hanno nessun diritto, nemmeno di guidare l’automobile per fare la spesa ai centri commerciali.
La casa regnante House ritiene molto più moderna che il resto del paese. Ma necessariamente prudente.
Karen Elliot House, On Saudi Arabia, Vintage, pp. 320 € 16,60

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