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domenica 8 novembre 2015

Che fare della Russia

La rivoluzione ha bloccato l’ammodernamento e la democazia. La rivoluzione del 1917, di cui lo stalinismo o sovietismo, perpetuato di fatto fino a Gorbaciov, fu figlio non bastardo. Il disinvolto marchese de Custine l’aveva previsto nel 1839: la reazione è insostenibile, se non ci sarà il liberalismo ci sarà la rivoluzione, “una più terribile di quella di cui l’Occidente risente ancora gli effetti”. Non poteva prevedere che la rivoluzione sarebbe stata essa stessa reazionaria, cortocircuitando la Russia nella fase di europeizzazione – più avanti allora di molta Europa, forse della stessa Italia, diritti civili compresi. L’aveva previsto dopo un viaggio breve a Pietroburgo, con una coda a Mosca, seppure imbeccato da informatori russi d’eccezione, i principi liberali - alcuni peraltro vicini allo zar. Il centralismo statalista è diventato legge e tallone di ferro implacabile, eliminando ogni individualità e sbarrando ogni apertura sociale, in una finta uguaglianza che era in realtà un regime di polizia. Bene. Ma perché si ristampano queste “Lettere” oggi?
“La Russia nel 1839”, poi “Lettere dalla Russia”, fu un classico dell’antisovietismo nella guerra fredda, a un secolo dalla pubblicazione nel 1842. Si ripubblica in una delle edizioni approntate in quegli anni, quella di Pierre Nora nel 1970. Per dire che siamo in presenza della stessa Russia? Le condizioni formali ci sono: le sanzioni, le basi militari, la Cia con la disinformacija. E il marchese de Custine: “La Russia vede nell’Europa una preda che le sarà consegnata presto o tardi dai nostri dissensi: fomenta da noi l’ananrchia nella speranza di profittare della corruzione”. La corruzione, il dissenso, la Russia, la politica di potenza, anche gli ingredienti ci sono tutti. Ma la Russia, malgrado Putin, è evidentemente un’altra, e il lettore non ci si ritrova. Si legge il marchese più per il contorno – per il personaggio - che per la sua Russia.
Guerra fredda
De Custine fu riscoperto nei primi anni 1950, con un parallelo tra la sua Russia, di Nicola I, e quella di Stalin. Boris Souvarine, l’ex animatore della Terza Internazionale, filosovietica, e del partito Comunista francese alla nascita, vi aveva già accennato nel 1935, nella sua biografia rivelatrice di Stalin. Ma il richiamo divenne opinione nella guerra fredda. George Kennan, l’ex ambasciatore americano a Mosca, lo ravvivò nel 1969, contro il breznevismo, “The Marquis de Custine and his «Russia in 1839»”, la raccolta di lezioni da lui tenute a Oxford nel 1969: “Pur ammettndo che non era un ottimo libro sulla Russia nel 1839, siamo di fronte al fatto inquietante che è un libro eccellente, probabilmente il libro migliore, sulla Russia di Josef Stalin, e non un cattivo libro sulla Russia di Breznev e Kossighin”. Il suo predecessore a Mosca, il generale Bedell Smith, ne aveva pubblicato un estratto nel 1951, intitolandolo “Un viaggio per il nostro tempo”, con la premessa: “Avrei potuto prendere alla lettera molte pagine del suo diario e, sostituendo nomi e date di oggi a quelli di un secolo fa, averli mandati al dipartimento di Stato come mie relazioni ufficiali”. Il 1839 di Custine “era la realtà del 1939 e la quasi realtà del 1969”, conclude Nora, lo storico francese che ha collazionato e presenta questa edizione – circa un terzo del voluminoso originale in quattro volumi (l’originale si ritrova nella collezione “Thésaurus” di Actes Sud, con prefazione di H.Carrère d’Encausse, l’unica edizione integrale dopo il 1853, dopo le prime dal fulminante successo).
La teoria allora prevaleva del “raschia il sovietico e ci trovi un russo”, sulla traccia della battuta napoleonica “raschia un russo e ci trovi il tartaro”. In questa ottica il marchese è stato montato a equivalente di Tocqueville, le “Lettere dalla Russia” come “La democrazia in America”. Due opere invece imparagonabili.
È vero che Custine decise il viaggio in Russia sull’onda del successo di Tocqueville. E che il successo di queste “Lettere”  fu altrettanto immediato e vasto come quello della “Democrazia in America”: quattro edizioni in tre anni, più numerose edizioni pirata in Belgio, e duecentomila copie vendute all’estero. Col plauso di Herzen, il fuoriuscito di maggiore peso: “Il libro più interessante che sia stato scritto sulla Russia da un straniero”. Al successo contribuì l’interesse per la Russia, che, benché europeizzata da poco, veniva considerata “amica e sorella” nella Francia della Restaurazione. Per i legami che l’aristocrazia emigrata nella rivoluzione, e lo stesso Chateaubriand, “patrigno” di Custine, vi avevano allacciato. Una vicinanza cui contribuivano anche i gesuiti, cui il marchese era devoto, col loro collegio di Pietroburgo. Malgrado le ferite che la Russia infliggeva alla Polonia, “la Francia del Nord”. Ma non c’è molto della Russia nell’opera di Custine.
Le “Lettere” sono opera di repertorio, condita con fonti giornalistiche. Vera Milchina, della università di San Pietroburgo, “«La Russie en 1839» du marquis de Custine et ses sources contemporaines”, “Cahiers du monde russe” (disponibile online http://monderusse.revues.org/42), riduce le fonti all’ambasciatore francese a San Pietroburgo, Prosper de Barante, che Custine non cita, e ad alcuni giornali parigini.
Come fonti Custine cita in appendice un professore di russo a Parigi, Girard, e un Grassini, “fratello della celebre cantante”, oltre a imprecisati principi russi (cui Nora dà però plausibili nomi) incontrati in Germania, dove decise di fare il viaggio. Le testimonianze di Girard e Grassini sono successive, raccolte nel 1842, mentre il libro veniva scritto. Girard è un soldato di Napoleone fatto prigioniero, il cui racconto certifica “l’inumanità dei russi”. Anche Grassini, incontrato a Milano nel febbraio 1842, è stato in Russia nel 1812, con l’armata del viceré d’Italia: prigioniero a Smolensk, conferma “la ferocia dei soldati russi”, ma vuole testimoniare anche la bontà della popolazione. Soprattutto delle donne, “contadine o grandi dame”. Non un grande racconto.
Oggi per di più non si può dire “raschi Putin e ci trovi Stalin”. E dunque? Ha ragione Hélène Carrère d’Encause: quest’opera “testimonia il difficile incontro tra la Russia tesa verso l’Europa e l’Europa, che non seppe mai come trattare e comprendere la Russia”. Custine ha solo “mal visto ma ben indovinato”, come dice lui stesso, lo zarismo, e lo sviluppo inevitabile di quel sistema, la rivoluzione. A ogni pagina è questione di dispotismo: la Russia è “l’incubo di un governo assoluto e di una nazione di schiavi”. Putin? Volendo, ce n’è anche per lui: dello zar Nicola I si dice che “sfida l’Europa invece d’incensarla”. Ma è uno dei modi dire della stessa cosa, il marchese è insistente oltre che monotono. La solfa se la fa ripetere perfino dallo zar, in un’intervista immaginaria: “Il dispotismo esiste ancora in Russia, poiché è l’essenza del mio governo; ma risponde al genio della nazione”. Allo zar fa pure mettere sotto accusa, in vece sua, il regime rappresentativo che non gli era simpatico. Che non è, premette, “la repubblica delle città antiche”: “Comprare i voti, corrompere le coscienze, sedurre gli uni e ingannare gli altri”.
Ritorna dal viaggio in qualche modo conciliato con la monarchia costituzionale: “Andavo in Russia per trovare argomenti contro il governo rappresentativo, ne ritorno partigiano delle costituzioni”. Ma con una sola idea della Russia: la servitù. Volontaria. Di automi. Eccetto gli spioni – compreso il mistificatore degli stranieri, quello che imbroglia le carte (la disinformacja già all’opera). Di burocrati. Inefficienti. Per concludere – una conclusione ribadita a ogni pagina: “La vita sociale in quel paese è una cospirazione permanente contro la verità”. “La civiltà russa è ancora così vicina alle origini che somiglia alla barbarie”. Di citazioni del genere ce n’è una infinità: “Un uomo sincero, in quel paese, passerebbe per pazzo”.
Il paese? Il modo di vivere? Di pensare? La gente? C’erano borghesi nella Russia del 1839, ma qui non ci sono. E nemmeno i nobili. Solo i despoti. Pietro il Grande molto, un po’ di Nicola I, moltissimo di Ivan il Terribile, di cui un centinaio di pagine o poco meno non bastano a dire tutta la malvagità - il ritratto di Ivan, benché copiato da Karamzine, storico prevenuto, il Tacito degli zar, è però anche terribilmente vivo, ben più sfaccettato e raccapricciante di quello del famoso film di Eizenstein. Metà del libro è su Pietroburgo, che gli riesce ostica – il marchese ne parla malissimo, ma anche benissimo. Il resto è contro i russi, più che contro la Russia, per il “fanatismo dell’obbedienza”, “un paese dealle passioni sfrenate o dai caratteri deboli, dei rivoltati o degli automati, senza intermediario tra il tiranno e lo schiavo”. Mosca, intravista, è alttrettanto ostica:  “città mostruosa”, “a Mosca si dimentica l’Europa”. Ma poi “tutto qui fa paesaggio”, e la città richiama, “non si saprebbe dire perché, Persepolis, Baghdad, Babilonia, Palmira, romanzesche capitali dei paesi favoolosi la cui storia è una poesia e l’architettura un sogno”… La vechia e futura capitale risolve nel Cremlino, attorno alle malefatte di Ivan, e nella confutazione di Mme de Staël, che Mosca aveva detto “la Roma del Nord”: no, “Roma è più estranea a Mosca di Pechino”.
Il riassunto finale, una ventina di pagine, basta e avanza: “I russi non immaginano niente”. “I russi non sanno che copiare, senza migliorare”. Le donne sono squadrate, villose, pulciose. Eccetto la zarina, che s’intrattiene col marchese in varie occasioni come una gentildonna borghese, con scambio salottiero di repartee – il marchese ha di questi svarioni. Gli uomini invece sono belli, bellissimi. Il  marchese lo ripete anche nel riassunto finale fino al deliquio, “molto amabili e molto infelici”. Sono però pure il contrario: greci del basso impero, cinesi, orientali, liberti, barbari, “grossolani o indelicati come i Calmucchi, sporchi come i Lapponi, belli come gli angeli, ignoranti come i selvaggi”. A cosa credere? Ma gli uomini, anche se russi, introducono al marchese, il vero protagonista delle “Lettere”.
Un marchese divino
La storia del libro e quella di Custine sono meglio della sua Russia. La lettura migliore è del romanzo che Nora gli costruisce attorno, nella prefazione e nelle rubriche a corredo. Il romanzo della vita anzitutto. Figlio di una madre troppo bella, Delphine, che darà il nome all’eroina e il titolo al romanzone “italiano” di Mme de Staël, per vent’anni amante di Chateaubriand, e di un padre ghigliottinato, come il nonno, Astolphe de Custine si libera quando lo scandalo lo mette al bando della società dei suoi pari. Quando fu trovato semimorto, nel quartiere equivoco di Saint-Denis, bastonato dai commilitoni di un artigliere col quale aveva convegno galante a pagamento. Si ristabilì, e prese a convivere liberamente col giovane inglese Édouard de Sainte-Barbe. Per alcuni anni con Édouard e con un giovane bello e spiantato nobile polacco, Ignace Gurowski. Fino a che questi, dopo cinque anni di intimità e lunghi viaggi col marchese, non sedusse l’infanta Isabella di Spagna, sottraendola al convento dove la famlglia reale spagnola l’aveva rinchiusa, e la sposò. Sempre nobilissimo, malgrado l’ostracismo, e molto pio malgrado il “vizio” come lui lo chiamava. Amante anche per questo dell’Italia, dove era quasi sempre - nel 1850 sarà in udienza privata dal papa Pio IX. Dogmatico, di “fede ardente” lo dice Nora, da mistico.
Ricchissimo, malgrado due o tre rovesci di Borsa, dà anche ricevimenti e feste alla migliore intellettualità di Parigi, avendo deciso che il suo futuro sarà di scrittore. E che nomi: Hugo, George Sand, Théophile Gautier, Balzac, che molto lo consiglierà e aiuterà editorialmente, Lamartine, Baudelaire, che ne scriverà l’elogio in morte. È anche corrispondente di Rahel Varnhagen a Berlino, “il romanticismo in persona”. E col marito di lei, il diplomatico prussiano Karl Augustin Varnhagen von Ense, il miglior conoscitore della Russia, A Varnhagen marito le “Lettere” devono molto, oltre che a una serie di principi russi incontrati in Germania e a Pietroburgo, Alexander Turguenev, zio del futuro romanziere, Kozlowski, Viazemski, Golitsine, Ciadaeev – ma le vere fonti sono altre, come si è detto.  A Vienna, in coppia con Gurowski nel 1835, incontra più volte Balzac, che è venuto a conoscervi Mme Hanska, dal quale ha molti consigli pratici. Anche il viaggio in Russia fa con Gurowski, e col cameriere italiano Antonio.
Viaggia sempre. Ai viaggi l’aveva iniziato la madre nel 1811, quando aveva 21 anni, portandoselo al seguito in una peregrinazione di tre anni per mezza Europa, in compagnia del suo nuovo amante, lo psichiatra Koreff. Durante la quale il marchese mise a punto il suo genere: resoconti di viaggio epistolari immaginari, molto elaborati. Compresa l’intervista, dopo morte, al personaggio importante, artificio che farà fortuna.
Prima di Saint-Denis aveva tentato, eroico, il matrimonio. Dopo aver rifiutato varie candidate della madre, aveva scelto una giovane remissiva, alla quale aveva anche fatto un figlio. Entrambi, madre e figlio, morirono presto. E Custine si emancipò. Ai ricevimenti presiedeva il suo compagno di sempre Edouard de Sainte-Barbe. A cui il marchese era infedele, ma di cui farà il suo erede universale – i parenti contestarono il testamento  ma persero la causa (frattanto Édouard era morto).
Con i romanzi non ebbe successo. Uno, “Aloysius”, ha la stessa storia dello stendhaliano “Armance”, e fu scritto nello stesso anno, 1827, probabilmente su un aneddoto vero, o una situazione che i due scrittori, che si frequentavano, conoscevano o si erano inventati. Ma il suo è noioso, come i suoi altri romanzi. Le lettere invece ebbero successo, dalla Calabria, dall’Italia, dalla Germania. Queste dalla Russia più di tutte. Ma subito poi dimenticate. Con le  “Lettere”, conclude Nora, “Custine ha scritto a modo suo il suo «Viaggio al termine della notte»”, anche lui reazionario radicalmente anarchico: “Anche a lui non è stato perdonato”. Beh, no.
Astolphe de Custine, Lettere dalla Russia, Adelphi, pp. 363 € 20

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