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mercoledì 27 gennaio 2016

Aridatece la Dc

Si moltiplicano i libri revisionisti o revanscisti. Auspice Giuliano Ferrara, che però si diverte, e non prende partito. Ma se si pubblicano vuol dire che si leggono, e quindi è evidente che la Seconda Repubblica è tale che la Prima era migliore.
Questa memoria di Pomicino è addirittura una rivendicazione, di sapere politico e perfino di onestà. Quella di Feltri è una rilettura elegante, scritta, di come funzionavano le cose prima, e di come la politica fu smantellata da Milano. Pomicino accusa i successivi vent’anni. Con punte personali, vendicative, soprattutto contro i “padroni del vapore”, i gradi giornali e i grandi giornalisti. Ma anche con acuti resoconti. Delle famiglie dei “salotti buoni” finanziari che si svendono il patrimonio contente di portare le plusvalenze in Svizzera. Del sistema in generale dell’industria italiana, pubblico e privato, smantellato a favore delle multinazionali, dei fondi d’investimento, e delle banche d’affari. Quello pubblico anche a prezzi di realizzo invece che al valore di mercato. Tutto innegabile. Di quello che si chiama mercato ed è invece l’orto protetto degli affari: comprare, smembrare, rivendere, che si dice “valorizzare”, ma si intende a beneficio proprio e dei propri soci. E non è tutto.
L’ex ministro del Bilancio di Andreotti, di cui fu sempre fedelissimo, cita anche il debito pubblico triplicato dal 1991 – è così. E le cose che non si possono più negare: bassa crescita, disoccupazione e sottoccupazione, disuguaglianze in aumento, nel terzo millennio, tra chi ha e chi ha poco o niente. Ciò che contraddice qualsiasi ipotesi di mercato, che non crea ricchezza se non per i pochi al controllo delle leve: un oligopolio, e forse un monopolio. Sociale. Degli speculatori, la razza più dannosa di capitalisti – e anche spregevole, poiché si nutre come gli sciacalli, della povertà degli altri, di quelli che essa stessa ha impoverito. 
Per chi c’era fa senso leggere questo atto d’accusa. Il revisionismo implicito di Pomicino si direbbe impudente, di uno della prima Repubblica che figurava pasticcione già all’epoca. Inquisito a lungo e anche condannato, seppure nella sua patria d’origine, Napoli, che non si può dire più del diritto: 42 processi, due settimane di reclusione, per dichiarazioni (poi smentite) di un imprenditore, due condanne, per tangenti al partito, nella vicenda Enimont (venti mesi), e nei fondi neri Eni (due mesi), due prescrizioni, e 38 assoluzioni.
Ma Pomicino è uno – uno dei pochissimi – che è rimasto sempre vivo: eurodeputato e deputato, nella prima decade del millennio (eletto in un raggruppamento Dc-Psi che la dice tutta sulla Seconda Reuubblica...). . Riabilitato giudiziariamente nel 2011. Col timbro scoutesco ma senza negarsi: come sottotitolo ha messo “L’Italia e il mondo visti da un democristiano di lungo corso”. Se la Dc era meglio, è tutto dire.
Pomicino è anche uno dei pochi – il solo? – che dice il ruolo non secondario di alcuni giornalisti nello scandalismo (“tutto, purché non si governi”). È l’unico che ricorda che Borrelli, il Procuratore Capo di Milano, quando Carlo Sama cominciò a nominare giornalisti, lo bloccò con un liquidatorio: “Per quello che ci risulta, si tratta di giornalisti con i quali Sama aveva appuntamenti di lavoro”. Sama era l’“ufficiale pagatore” del sistema di tangenti collegato all’affare Enimont, per conto del gruppo Ferruzzi.
Un capitolo conferma autorevolmente il già noto. Berlusconi temeva il fallimento a opera del sistema Mediobanca, di Enrico Cuccia e i suoi salotti milanesi, e per proteggersi entrò infine in politica. Il disegno politico aveva avviato come patrocinatore, ma di fronte al concretizzarsi delle minacce si trasformò in capopopolo. Fu tenuto a galla da due banchieri marginali al sistema, Luigi Fausti della Commerciale, che per questo pagherà, e Cesare Geronzi dell’allora Banca di Roma, che Andreotti proteggerà dai fulmini milanesi – Cuccia scenderà a patti con Andreotti. Con la politica Berlusconi evitò, dice Pomicino, la sorte dei Ferruzzi, un impero dissolto dai salotti buoni nel nulla, col suicidio del capo azienda, Raul Gardini.
Un altro capitolo riguarda le deviazioni giudiziarie. In cui Pomicino è per più aspetti parte in causa (avrebbe potuto dirci perché gli andreottiani furono, fra tutti i Dc, gli unici esclusi dai fulmini di Mani Pulite, ma non lo fa). Però è vero che si voleva lo Stato-mafia già nel 1992, lo voleva l’ex Pci. Forse non Napolitano, che da ultimo si tenterà di coinvolgere, ma i suoi compagni sì. E che Violante, deputato Pci-Pds, votò con gli altri pidiessini contro un decreto Andreotti-Vassalli inventato per non scarcerare un nugolo di mafiosi, i loro processi essendo più lunghi della carcerazione preventiva. A buon rendere (Riina dirà solo alcuni anni dopo, nell’unica dichiarazione pubblica che gli si conosce: “I comunisti sono i nostri nemici”)?

Paolo Cirino Pomicino, La Repubblica delle giovani marmotte, Utet, pp. 268 € 15

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