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giovedì 24 maggio 2018

Il Grande Romanzo Americano senza l’America

Il “grande romanzo americano”, dell’America del secondo Novecento, lo è. Ma solo nella denuncia della violenza. Nazionale, politica, sociale. E individuale: se non di chi va a scuola a uccidere i compagni per nessun motivo, quella di chi spara e uccide fuori scuola dicendosi paladino dell’anti-sistema - il sistema della violenza… In questo è anche un atto di coraggio – nessun autore europeo, tedesco, italiano, francese, ha osato sputtanare così bene il terrorismo degli anni 1960-1970, confuso o stupido quando non è corrotto, scorciatoia per non lavorare.
Ma l’America non c’è, non essendoci un contesto più ampio, una prospettiva. Un contesto, del più grande mondo che l’America controlla: il comunismo, le multinazionali, le guerre, una costante di questa America. O un  controcanto o una controluce, come si sarebbe potuta indirizzare meglio. Il terrorismo nasce contro la guerra al Vietnam, ma la guerra non c’è.
Ce ne sarebbe bisogno, la guerra perduta è un bel plot, ma non  è stato scritto e non si scrive. La “Pastorale” non è “Guerra e pace”, è l’ennesimo storione familiare. A cominciare dall’attacco proustiano, una sorta di pastiche del ritmo e i motivi della saga di Proust, a metà irridente ma pur sempre celebrativo - lo sguardo da lontano, creativo e censorio insieme, è la cifra di Roth. Allargato agli americani non ebrei in pochi particolari, non edificanti: lo snobismo, il settarismo, l’oltraggio - la moglie, irlandese cattolica, che si fa ingroppare al lavello di cucina dall’architetto wasp.
Seymour Levoy “lo Svedese” , ottimo sportivo, grande lavoratore e buon padre, è troppo solo e quasi fuori quadro - un fissato, un folle. Forse “differente”, forse perché ebreo – c’è un problema ebraico a identificarsi con l’“America profonda”? Che pure è semplice. La narrazione è per questo parziale, l’impeto politico si spegne. Si chiude con lo scandalo Watergate, con le rituali abominazioni. Uno scandalo che per molti aspetti rimane incomprensibile, se preso nel senso ancora corrente negli Usa, sbagliato, di un presidente al di sotto del suo ruolo, e non come rivalsa del “sistema” contro chi – Nixon, Kissinger – aveva saggiamente accettato la sconfitta, in Vietnam e sul dollaro.
Resta la storia, quasi grandiosa, dell’onest’uomo che il fato invidia e tradisce. Anche negli affetti. Una tragedia, benché non contenuta, nel New Jersey, periferia di New York. Ma al di là delle intenzioni, che lo relegano nel ruolo del Bravo Americano.
Philip Roth, 
Pastorale americana, Einaudi, pp. 425 € 14



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