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sabato 15 settembre 2018

Calabria, storia di un impoverimento


Finalmente una storia documentata – l’appendice è ricca di una quarantina di documenti. E scorrevole alla lettura. Anche se con incomprensibili economie: un indice dei nomi sarebbe stato benvenuto, e perché non corredare le citazioni col nome dell’autore, e i documenti dei riferimenti originali (lingua, anno, luogo, etc.)?
Ancora prima che dai Normanni, ultima migrazione tribale dei predoni girovaghi del Nord-Est, il Sud era ambito dagli imperatori. Federico Barbarossa fece sposare sposare al figlio-erede Enrico VI  la zia dell’ultimo re normanno, Costanza, alla quale il regno sarebbe toccato in eredità. E alla morte d Guglielmo II il Buono ne prende possesso. È una storia che avrebbe potuto essere diversa, non fosse stato per gli errori di Federico II, che indebolì l’impero, e il regno del Sud.
Questa è una delle revisioni di Caridi, cui lo storico procede pianamente, matter-of-fact, senza polemiche. È riabilitato il cardinale Ruffo, quello che riconquistò Napoli per i Borboni. Sulla scorta peraltro di Croce, che del cardinale aveva messo in risialto la natura carismatica e non sanguinaria – fu Nelson che, contravvenendo ai patti, fece trucidare gli esponenti della Repubblica partenopea. Di Federico II il ritratto è in controluce. Molto è question e di fiscalismo eccessivo, di moltiplicazione dei nemici, e di incostanza nelle decisioni, più che delle celebrate doti di mecenate e promotore delle arti e la poesia. Lasciando alla morte la Sicilia divisa in una “repubblica delle vanità”, secondo un cronista (senza nome…) dell’epoca. È invece apprezzato il mezzo secolo aragonese, di Alfredo il Magnanimo e Ferrante.
Una storia attenta ai fatti economici e demografici. Il coté politico essendo presto detto: una lotta di sei secoli dei baroni, eredità normanna, contro i tentativi della corona, angioina, aragonese, spagnola, asburgica, borbonica, di creare uno Stato, una nazione. Una storia prevalentemente di scontri, fra la feudalità e i re di Napoli, a partire dagli Aragonesi nella seconda metà del Quattrocento. Contro i quali i baroni giocarono gli stessi Angioini, e poi la corona francese, fino a provocare la rovinosa discesa di Carlo VIII.
Una regione ricca, malgrado la feudalità. Tanto arcigna sui propri “diritti” quanto “assente”, cioè inerte, incapace. Di baroni che hann protetto fino all’arrivo dei francesi a fine Settecento feudi dei quali si disinteressavano, anzi si gloriavano d non sapere nulla - per puntiglio. Una regione ricca malgrado avesse la sua produzione principale, la seta, soggetta a concessione governativa, e quindi contingentata, con arbitrio più o meno fondato. Con una sperequazione fiscale enorme, a vantaggio dei nobili, e ancora di più degli ecclesiastici, che non pagavano niente – da qui i tanti ecclesiastici.
Una storia che di per sé è una vindication, rispetto alla tabula rasa, da terra nullius, l’ideologia dell’unificazione. Le guerre dei baroni, la feudalità senza obblighi, l’ingiustizia fiscale, la storia si direbbe di malgoverno, nulla di nuovo. Ma nemmeno questo è vero: il Regno del Sud fu il primo, una volta indipendente, sebbene sotto la corona spagnola, borbonica, a illuminare la legislazione, a metà Settecento, quando il resto dell’Italia, e gran parte dell’Europa, navigavano ancora nell’oscurità, forte di molti cervelli di prestigio, Galiani, Genovesi, Filangieri, Tanucci, Grimaldi, Galanti.
La Calabria è sempre stata dipendente da Napoli, nel regno di Napoli prima, e poi, con Carlo di Borbone, delle Due Sicilie, quando l’isola dopo cinque secoli fu ricollegata al continente. Ma più che vittima se ne può dire compagna di sventura.
Giuseppe Caridi, La Calabria nella storia del Mezzogiorno, Città del Sole, pp. 335 € 16

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